Arena di Villepine, banlieue nord di Parigi. È il tardo pomeriggio di sabato 3 agosto. Il pubblico è più folto che nei giorni scorsi. Non parliamo della tribuna stampa. Va in scena, infatti, un incontro di boxe femminile che per alcuni è epocale, per altri, invece, è scandaloso. Quarti di finale categoria 66 kg. L’algerina Imane Khelif si batte contro l’ungherese Anna Luca Hamori. Il tifo algerino è da finale Champions. L’Hamori è accolta da poderose bordate di fischi: sui social ha postato innumerevoli post protestando, anche con insulti, per la presenza sul ring della Khalif, ricordando che era stata squalificata ai Mondiali del 2023: peccato che gli esami citati quali prove dell’esclusione in cui si sarebbero evidenziati valori non idonei per i requisiti di femminilità, siano abbastanza misteriosi.
Insomma, l’atmosfera è incandescente. L’arbitro invita le due pugili a battersi. A differenza della melodrammatica Angela Carini, la pugile ungherese Hamori non frigna per i destri della Khelif che spesso penetrano nella sua guardia. Né tantomeno si è ritirata, come la nostra Angela (due cazzotti e 46 secondi, per lamentarsi che mai era stata picchiata così forte…), sebbene la superiorità tecnica dell’algerina fosse abbastanza evidente.
Per due volte, nel terzo round, l’Hamori si avvinghia alla Khelif e scivolano assieme sul tappeto. I cinque giudici, all’unanimità, assegnano la vittoria alla venticinquenne algerina, nel mirino delle destre sovraniste – ahimè, stanno contagiando lo sport pur di rovinare la festa alle Olimpiadi made in Macronia – perché la ragazzona di Tiwrat sarebbe iperandrogina. Beh, una lezione di stile la bionda ungherese ha saputo darla. Non solo è rimasta in piedi sino alla fine dell’incontro, ma ha accettato il verdetto ed ha abbracciato la rivale, a differenza della sconcertante Carini; pur ritenendo la Khelif un uomo e non una donna, è stata rispettosa e del risultato (un secco 5-0) e dell’avversaria: “Sono orgogliosa di quel che ho fatto, di aver combattuto con lei e le auguro tutto il meglio per la semifinale”.
Semmai, a piangere, stavolta, è stata l’algerina, travolta dalla commozione e dallo stress che l’ha tormentata in queste giornate avvelenate: “E’ una questione di dignità, di onore per ogni donna. Tutto il popolo arabo mi conosce da anni. Gli anni in cui io ho fatto boxe nelle competizioni della federazione internazionale. Sono loro, ad essere stati ingiusti con me. Ma io ho il conforto di Dio”. Saluta il pubblico, però, con la mano alla tempia, In posa militare. Si inginocchia. Con le dita traccia una linea immaginaria. Forse quella che divide il suo mondo da quello meschino di chi l’ha messa in croce. Altro che “liberté, egalité, fraternité”. Ora la Khelif è certa di avere in tasca almeno una medaglia di bronzo, ma è altrettanto sicuro che il suo percorso verso il gradino più alto del podio continuerà ad essere accompagnato da polemiche e linciaggi sempre più insolenti ed inaccettabili. Persino Rachele Mussolini ha trovato la persecuzione contro l’algerina ingiusta e pretestuosa (si riferiva probabilmente alla dichiarazione trash di Ignazio La Russa, “un trans ha picchiato la nostra atleta”).
Del resto, le cose le aveva messe bene in chiaro il presidente del Cio Thomas Bach, quando ha incontrato Giorgia Meloni: “La Khalif e la taiwanese Lin Yu-Ting sono donne a tutti gli effetti”. Imane, suo malgrado, è nel cuore di una feroce controversia che riguarda sia l’aspetto etico e genetico, sia quello delle regole dello sport. Proprio per questo, il Cio ha denunciato la “caccia alle streghe” scatenata per aver deciso di consentire alle due atlete (escluse dai Mondiali dall’Iba, l’International Boxing Association), di competere come donne ai Giochi parigini. Così Mark Adams, portavoce del CIO, è stato costretto a smentire i detrattori che accusavano il Cio di aver manipolato le regole, e ha ribadito che “l’organizzazione è completamente a suo agio con le regole utilizzate per le Olimpiadi di Rio 2016 e Tokyo 2020 (…) tutte le competitrici che partecipano ai Giochi seguono e rispettano le regole di eleggibilità”. La Khalif e la Yu-Ting “boxano da anni nelle categorie femminili. Lo hanno fatto anche ai Giochi di Tokyo (…) sono assolutamente idonee, sono donne sul loro passaporto, gareggiano da molti anni. In realtà penso che non sia utile iniziare a stigmatizzare le persone che praticano questo sport. Penso che tutti noi abbiamo la responsabilità di mitigare questa situazione e non trasformarla in una sorta di caccia alle streghe”. A Tokyo, Iname Khelif era stata sconfitta nei quarti di finale dall’irlandese Kellie Harrington, che ha poi vinto l’oro. Yu-Ting, due volte campionessa asiatica, si è fermata agli ottavi della categoria femminile dei pesi piuma. Diciamo la verità: cronache di meschine cattiverie.
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