Chi è giusto che decida per Venezia? Il principio democratico e il principio autonomistico (artt. 1 e 5, Cost.) conducono naturalmente a preferire organi eletti, rappresentativi della comunità, al fine di assumere le decisioni per il presente e per il futuro del Centro storico, della Laguna, dei Lidi e dell’immediato entroterra lagunare.
Ci si può chiedere però se qualsiasi decisione presa dagli organi comunali vada accettata, in quanto espressione della volontà popolare (della maggioranza). Non è ozioso rammentare in proposito che dal 1987 l’intera area lagunare veneziana, compreso l’entroterra (come area di rispetto: buffer zone), è sito Unesco: qualificazione – questa – che è data non per attribuire ad un bene un particolare marchio turistico (come invece più di qualcuno pensa); bensì per certificare il massimo valore del bene, meritevole di essere parte del patrimonio culturale d’interesse mondiale.
Pertanto, se le decisioni sono pregiudizievoli per il bene avente natura così preziosa, esse vanno comunque osteggiate, ancorché assunte dagli organi rappresentativi della comunità: la discrezionalità politica non è illimitata; i limiti sono maggiori se il valore del bene è massimo, in quanto si impongono a chiunque (istituzioni in primis) le più attente, le più acute azioni di conservazione e valorizzazione del bene stesso.
L’aspetto fondamentale per Venezia e la sua Laguna, come sito Unesco, è il mantenimento e lo sviluppo della sua dimensione d’acqua. Nel tempo presente, della modernità tutta votata al cemento, all’asfalto, alla velocità e al gigantismo, risulta tanto più difficile difendere e diffondere la vita vissuta sull’acqua, tra i canali e le barene: vita più lenta, più riflessiva, più misurata, per ciò stesso demonizzata dagli aziendalisti rampanti.
Non sorprende quindi che le rappresentanze politiche locali siano state sedotte dal modello di sviluppo dominante, e abbiano così portato in Laguna proprio quella modernità insensibile e incurante della speciale natura del luogo, e non abbiano invece agito in modo esattamente opposto, cioè volto alla tutela, alla valorizzazione e alla espansione verso l’entroterra della dimensione d’acqua, come impongono i principi giuridici fondamentali (art. 9, Cost.; Convenzione internazionale di Parigi, del 1972, sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale).
Simboli della penetrazione “modernista” in Laguna, della seconda metà del ‘900 e di questi primi 24 anni del XXI secolo, sono: (a) l’orribile isola artificiale del Tronchetto, in pieno centro storico, coperta di sconfortanti edifici per il ricovero di automobili; altri edifici, simili a capannoni industriali, per attività d’ufficio e servizi; e ora ulteriori edifici (in costruzione) per fugaci pernottamenti di turisti ignari (“dal torpedone alla camera da letto e ritorno”: è la “comodità” di questa nuova appendice del centro storico); (b) l’aeroporto Marco Polo che è ormai vasto (comprese le piste) quasi quanto il centro storico veneziano e che è destinato a diventare ancora più vasto, posizionato in un’area della Laguna nord di pregio paesaggistico elevatissimo, tra il parco archeologico di Altino e l’isola di Torcello, emblema della “Venezia più antica”.
All’opposto, le azioni coerenti con la dimensione d’acqua dell’area, da valorizzare ed espandere, sono state rare, circoscritte e comunque “eroiche” a fronte dell’indirizzo politico illegittimo (del tutto incoerente con i principi giuridici fondamentali) ma assolutamente dominante: giusta ed eroica in particolare la decisione di riportare alla luce un tratto del canale interrato negli anni ’50 del secolo scorso (“rio delle Muneghe”) in pieno centro a Mestre, liberando pure le vie laterali dal traffico automobilistico, secondo la cultura e la tradizione urbanistica di stampo veneziano. Si può osservare che iniziative del genere “partono dal basso, dai cittadini impegnati in una ricostruzione culturale del rapporto con le vie d’acqua urbane” (cfr. Colio e Tonello, Ilfiumemarzenego.it).
In altre parole, è proprio la comunità locale a volere le opportune e corrette decisioni di sviluppo che spesso invece i governi locali “tradiscono” in nome di uno sviluppo lucrativo ma privo di rispetto per il luogo e perciò illogico e insostenibile. In generale, andrebbe introdotta una disciplina volta a rendere obbligatoria la consultazione popolare prima di compiere scelte di notevole impatto. Con siffatta consultazione (non vincolante, ma obbligatoria) probabilmente sarebbe stato scongiurato, mediante un supplemento di riflessione, il taglio nottetempo degli storici e frondosi pini marittimi, parte dei quali tutelati come bene paesaggistico, al Lido di Venezia, per fare spazio ad un edificio che poi non venne mai realizzato, tanto che qualche anno fa sono stati ripiantati pini marittimi, ma fragili e asfittici.
La corruzione, il malaffare, gli interessi privati in atti d’ufficio, l’arroganza del potere, sono (ahinoi) piaga diffusa e purtroppo endemica nella gestione della cosa pubblica, non solo a Venezia. Poi, le grandi opere (Mose, lottizzazioni per ulteriori edifici “fuori misura” a Mestre, uno stadio calcistico in una delle ultime aree ancora verdi della gronda lagunare, e via dicendo) sono, in effetti, idonee ad incrementare i margini della corruzione, dei favori, delle tangenti: sono sirene potenti. La città d’acqua, le isole, la circolazione nei canali, la destinazione d’uso degli immobili, l’offerta turistica sembrano lasciate in balia di una sostanziale deregulation e dei diktat di lobby di categoria, a fini predatori.
Non sorprende – ripeto – che in costanza di tali prassi e di tali pressioni le rappresentanze politiche locali possano essere fuorviate, traviate, allontanate dal giusto cammino decisionale (tanto più se sembrano non avere sufficiente consapevolezza del loro delicatissimo ruolo che consiste nel trovare le soluzioni migliori per portare a Venezia e in Laguna “vita autentica” – non la vita effimera di un luna park – salvaguardando però il valore culturale che proprio a Venezia può dirsi supremo e idealmente onnicomprensivo come sta a simboleggiare la Biennale d’arte, e che quindi impedisce anche solo di pensare di poter vendere o svendere preziosissimi dipinti della collezione d’arte moderna internazionale di proprietà del Comune, o famosissimi e favolosi palazzi in Canal Grande, sedi degli organi dell’ente regionale, o intere isole della Laguna). Sorprende invece che le organizzazioni di controllo, le organizzazioni tecniche di alto profilo professionale, espressamente preposte per impedire ogni azione lesiva del patrimonio culturale, del paesaggio, dei beni ambientali, in violazione dei principi giuridici supremi (soprintendenze ministeriali, la stessa Unesco e pure la Commissione per la salvaguardia di Venezia, almeno per una parte dei suoi componenti), appaiano come “afone”: più che strutture vigili e pronte alla salvaguardia del patrimonio culturale, si ha l’impressione che siano “celesti osservatori” dello sfacelo.
Probabilmente, oltre ad una rappresentanza politica rinnovata, decisamente più consapevole del suo particolare ruolo (responsabile e inflessibile nell’amministrare in stretta aderenza ai principi giuridici supremi un’area unica al mondo, patrimonio culturale e ambientale dell’umanità), ci sarebbe bisogno pure di un sistema organizzativo di controllo più incisivo e “indipendente” rispetto agli organi di indirizzo politico.