La missione si è conclusa come si doveva concludere. Quasi come fosse inevitabile. Il tutto condito da un pianto a dirotto finale poche volte mostrato in carriera con tale emozione. L’oro olimpico conquistato da Novak Djokovic battendo Carlos Alcaraz è la fine di un’ossessione personale e di un’epopea iniziata cinque edizioni fa, a Pechino nel 2008. Dopo 24 Slam, di cui 7 Wimbledon, 3 Roland Garros, 10 Australian Open, 4 Us Open. Dopo 7 Atp Finals, 40 Masters 1000, 98 titoli complessivi e 428 settimane da numero 1 della classifica. Il cerchio ora si è chiuso, l’ultimo tassello del puzzle inserito, l’unico vuoto della bacheca riempito. Nole, a 37 anni, diventa il terzo campione olimpico più anziano dopo Arthur Gore (40 anni e 4 mesi) e Josiah Ritchie (37 anni e 8 mesi). Il quinto a completare il Career Golden Slam (ovvero vincere tutti i titolo Slam più l’Olimpiade), dopo Andrè Agassi, Rafa Nadal, Steffi Graf e Serena Williams.
Parigi è nuovamente il teatro di un momento storico per il serbo, come già lo era stato 8 anni fa, il 5 giugno 2016, il giorno della vittoria del primo sospirato Roland Garros. Quello che gli aveva permesso di completare il Career Grand Slam. Djokovic in questo successo olimpico ha messo tutto sé stesso, tirando fuori la frustrazione accumulata in questa stagione e la qualità finora trattenuta. Ha ritrovato la fame dei giorni migliori, una brillantezza che pareva essere diventata una chimera e la concentrazione massima. Tutto al servizio di una integrità fisica ormai recuperata. Era l’ultima chance della vita per mettersi al collo il metallo più ambito e c’è riuscito, spazzando via ogni perplessità della vigilia e mesi di delusioni.
Il diritto lungolinea con cui ha spezzato definitivamente la resistenza di Alcaraz probabilmente non dissiperà il dibattito impossibile su chi sia il più grande di ogni tempo, ma sicuramente ne chiude un altro, quello sul tennista più vincente della storia. Uno status che probabilmente già gli apparteneva, ma che dopo oggi è totalmente certificato, passando oltre qualsiasi giudizio morale o simpatia soggettiva. Perché nessuno era mai stato capace di mettere in piedi un palmares come quello di Djokovic.
Salire sul gradino più alto del podio olimpico ha anche la valenza di un sussulto, per Nole così come per tutto il circuito. Fino ad oggi, il 2024 era stato l’anno peggiore della carriera, senza titoli, con una sola finale conquistata, il numero 1 del mondo lasciato nelle mani di Jannik Sinner e la sensazione di essere distante (soprattutto fisicamente) dai più diretti rivali. Battibile anche per giocatori che fino a sei mesi fa sarebbero stati sconfitti con la sua sola presenza in campo. Questo oro invece riequilibra tutto. Si unisce alla recente finale di Wimbledon per mandare un messaggio a tutti: non è ancora la fine. C’è sempre spazio per qualcosa di grande. Magari non per dominare, ma per primeggiare sì.
Il successo alle Olimpiadi si presenta adesso come una grande occasione di rilancio per disputare una seconda parte di stagione da protagonista assoluto. Anche perché di fronte a Djokovic si stagliano nuovi record che attendono solo di essere infranti. Nuove ossessioni da soddisfare. Un esempio? Gli Us Open, al via tra sole tre settimane. C’è da alzare il titolo Slam numero 25, per mettersi definitivamente alle spalle Margaret Court nella speciale classifica tra maschile e femminile. Issarsi lassù da solo per non dover più condividere con nessuno. Alla condivisione ci ha già pensato l’oro olimpico, che non è solo di Djokovic, ma anche di tutta la Serbia.
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