Complimenti a Luisiana Gaita per l’ottimo articolo sulla protezione del mare in Italia, e complimenti a Greenpeace per la mappa delle aree protette: dovremmo proteggere almeno il 30% dello spazio marittimo entro il 2030 e siamo lontanissimi dall’obiettivo.

La soluzione al degrado ambientale, comunque, non è di proteggere una parte rilevante dei nostri mari ma di gestirne adeguatamente la totalità. Le aree protette sono istituite dove gli habitat hanno caratteristiche paesaggistiche rilevanti (di solito scogliere sottomarine) o dove sono presenti specie carismatiche (vedi il santuario dei cetacei in Mar Ligure). Gli habitat e le specie, però, non sono entità autonome, e prosperano solo se il funzionamento degli ecosistemi è garantito.

Gli habitat e le specie sono la struttura ben visibile degli ambienti, mentre le funzioni ecosistemiche sono entità meno evidenti. Il concetto si comprende meglio se lo rapportiamo al nostro corpo. Gli apparati digerente, circolatorio, respiratorio, le cellule e l’apparato escretore sono strutture ben conosciute, visto che sono parte dei programmi scolastici. Ma sono pochi a sapere come queste strutture interagiscano per far scorrere l’acqua nel nostro corpo fino a produrre la plin plin dell’acqua minerale!

Salvaguardare le strutture senza comprendere le funzioni non è garanzia di buona gestione.

L’Unione Europea ha iniziato il suo percorso normativo sulla natura focalizzando l’attenzione sulle strutture (le specie carismatiche e gli habitat) per passare alle funzioni ecosistemiche con la strategia marina del 2008, che prevede il raggiungimento del buono stato ambientale in tutte le acque comunitarie entro il 2020, non solo nelle aree protette. La direttiva declina il buono stato ambientale con undici descrittori: il primo prevede che la biodiversità sia mantenuta, e difende le strutture; gli altri dieci prescrivono che i nostri impatti non alterino in modo significativo il funzionamento degli ecosistemi.

Il raggiungimento di questi obiettivi renderebbe inutili le aree protette, se non per decretare la rilevanza “paesaggistica” di particolari porzioni di ambiente, garantendone però l’opportuno funzionamento con una buona gestione di tutte le acque comunitarie. La direttiva sulla pianificazione dello spazio marittimo prevede che le nostre attività marine siano gestite in modo da garantire il buono stato ambientale, e questo è possibile solo se si applica un principio guida dell’Unione Europea: l’approccio ecosistemico. Ogni attività va pianificata tenendo conto dei suoi impatti sugli ecosistemi.

Se le direttive fossero rispettate l’obiettivo del 30% di protezione sarebbe inutile, visto che il buono stato ambientale deve essere ottenuto nel 100% delle acque comunitarie. Il mancato raggiungimento di questi obiettivi è dovuto a carenze culturali: manca la cultura della natura. Non si può proteggere e gestire opportunamente quel che non si conosce. Le aree protette diventano giustificazioni per devastare gli spazi circostanti: mica vorrete vietarci tutto!!!! Così la protezione di qualche brandello di ambiente diventa l’alibi per devastazioni su scala ben più ampia.

Le protezioni locali, comunque, non possono salvaguardare il nostro mare dall’impatto del riscaldamento globale: il nostro mare non è mai stato così caldo. Ed ecco quelli che dicono che non ci sia più nulla da fare e che, quindi, si possa tranquillamente continuare come sempre: l’orchestra che suona sul Titanic.

Inutile spiegare che una natura rispettata risponde meglio a impatti anche globali. E poi è giusto che ognuno faccia la sua parte, senza aspettare che tutti facciano altrettanto. Da una parte si chiede di svolgere “da qualche altra parte” attività che degradano l’ambiente (è per questo che abbiamo trasferito le produzioni inquinanti in Cina) e dall’altra si chiede di non intraprendere percorsi di sostenibilità se gli altri non fanno altrettanto. Rimane qualche imbecille negazionista, ma ora l’obiezione a politiche di sostenibilità è: e allora la Cina? Inutile smettere di inquinare e devastare se in Cina (e in tutti gli altri paesi dove abbiamo delocalizzato) inquinano e devastano. Morale: devastiamo anche noi.

Per fortuna l’Ue non è così miope e ha emanato Direttive basate sui risultati di innumerevoli progetti europei sullo stato dell’ambiente che hanno prodotto diagnosi, prognosi, terapie e linee guida volte a migliorare il nostro rapporto con la natura. Per il raggiungimento di questi obiettivi l’Ue parla anche della necessità di un’alfabetizzazione marina, riferendosi allo stato culturale del cittadino europeo medio per quel che riguarda la conoscenza di mari e oceani. L’alfabetizzazione è necessaria perché siamo ancora analfabeti, lo sono gli elettori e anche gli eletti, soprattutto nei parlamenti nazionali.

Ci commuoviamo per balene, delfini e tartarughe ma non sappiamo come funzionano gli ecosistemi planetari, e non è possibile prendersi cura di ciò che non si conosce. Balene, delfini e tartarughe, ma anche noi stessi, “stanno bene” se gli ecosistemi sono in buona salute. Non bastano le aree protette (il paesaggio), dobbiamo rispettare biodiversità ed ecosistemi, recentemente inseriti nell’articolo 9 della Costituzione. Il concetto, però, è ancora troppo difficile da capire per gran parte della popolazione e per i politici che esprime, ignari di concetti base che vanno dalla plin plin agli ecosistemi, con tutto quello che c’è in mezzo.

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