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“Evitare l’escalation”: perché l’Iran, fiaccato da anni di crisi e sanzioni, ha bisogno di non interrompere i rapporti con l’Occidente

L’Iran risponderà a Israele con “un’azione seria e deterrente con forza, determinazione e fermezza”, ma “non cerca di aumentare le tensioni nella regione”, ha detto questa Nasser Kanani, portavoce del ministero degli Esteri. La Repubblica Islamica sa di dover ponderare una reazione che possa dimostrare alla propria opinione pubblica che è in grado di reagire all’uccisione di Ismail Haniyeh ma, alle prese con una lunga e profonda crisi economica e di consenso politico, il regime sa di non poter aprire un conflitto con Tel Aviv che coinvolgerebbe l’intera regione, le costerebbe molto in termini finanziari e bloccherebbe il percorso “riformista” affidato al neo-presidente Masoud Pezeshkian.

L’economia del 9° paese Opec per produzione e 3° al mondo per riserve di petrolio è alle prese con uno stallo economico che dura da anni: se nel 2005 il Pil pro capite non era lontano da quello della Turchia, oggi, secondo dati pubblicati a maggio dall’Ispi, tra i due paesi c’è un abisso al punto che persino l’Egitto, pur essendo più popoloso e meno ricco di risorse naturali, ha quasi raggiunto i livelli di Teheran. L’inflazione annuale ha toccato il 55,5% nell’aprile 2023 e a giugno era del 31,9%, in rialzo dal 30% di maggio e il più altro negli ultimi 3 mesi, principalmente a causa dell’aumento del costo di cibo e bevande analcoliche (25,8% contro il 22,7% di maggio), in aumento per il 4° mese di fila: secondo un articolo pubblicato a marzo dal quotidiano riformista Ettemad, il costo della carne di agnello e della carne rossa è aumentato del 100%, quello del tonno in scatola del 130%. La valuta, il rial, ha perso circa metà del valore sul dollaro dalla fine del 2021 e l’impennata inflazionistica ha avuto come principale conseguenza l’aumento della spesa pubblica, sostenuta in gran parte facendo ricorso ai prestiti delle banche locali.

Una crisi peggiorata a partire dal 2018, anno in cui Donald Trump ritirò gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare raggiunto nel 2015 da Barack Obama che prevedeva un graduale allentamento delle sanzioni imposte nei decenni dall’Occidente in cambio della riduzione da parte di Teheran della propria capacità di arricchimento dell’uranio, necessario alla produzione dell’arma nucleare. In seguito al ritiro dall’intesa, Washington reintrodusse le pesanti sanzioni sospese o in via di eliminazione, che negli ultimi anni hanno inferto un nuovo duro colpo a un’economia che tentava faticosamente di rialzare la testa.

Il risultato è stato, da un punto di vista politico, l’aumento del dissenso interno. Alle elezioni di marzo, vinte dal partito conservatore di governo, l’asticella dell’affluenza si è fermata al 41%, record negativo dal 1979, in un paese in cui l’astensionismo è uno dei pochi strumenti che ha la popolazione per esprimere il proprio malcontento. Ulteriormente aumentato dopo la morte nel settembre 2022 della giovane Mahsa Amini per mano della polizia religiosa, evento che creò nel Paese un’ondata di proteste di piazza sostenute dall’opinione pubblica internazionale che il regime degli ayatollah represse nel sangue.

A questa situazione è stato chiamato a porre un freno Masoud Pezeshkian. Eletto a inizio luglio, già durante un dibattito televisivo prima del voto il nuovo presidente aveva messo in esplicita relazione la crisi economica con l’isolamento politico del paese. La sua elezione è stata avallata dal regime di Ali Khamenei allo scopo di avviare un percorso riformatore interno necessario ad allentare le tensioni con l’Occidente e intavolare una nuova trattativa che possa portare a un allentamento delle sanzioni, mantenendo al contempo le relazioni con i partner storici, Cina e Russia in primis. “Il mondo ha bisogno di cogliere questa opportunità senza pari per affrontare le questioni regionali e globali attraverso la collaborazione con un Iran potente, dignitoso e in cerca di pace”, aveva detto il 30 luglio nel suo discorso di insediamento. Soltanto poche ore prima che un missile colpisse il compound dei pasdaran di Teheran in cui dormiva il capo dell’ala politica di Hamas, costringendo gli ayatollah ad annunciare una risposta a Israele.

Al netto quindi delle dichiarazioni di circostanza sull’annientamento di Israele – “Pensano che uccidendo il leader di un gruppo di resistenza in un altro Paese si concederanno più tempo per vivere. Si stanno solo scavando la fossa”, ha detto questa mattina il capo del Corpo delle guardie della rivoluzione, Hossein Salami – il regime sa che la risposta dovrà contemperare l’esigenza di lavare l’offesa subita con l’assassinio di Haniyeh e quella di non alimentare un’escalation che rischia di risucchiare l’Iran in una guerra che coinvolgerebbe l’intera regione e che Teheran in questo momento non ha la forza né alcuna convenienza ad affrontare.