Sono proprio fortunati quelli di Focus. Hanno in palinsesto un bel documentario, realizzato dalla redazione sportiva Mediaset, che va in onda nella prima serata del 31 luglio visto che quella è la data in cui ricorre il 70esimo anniversario della conquista del K2. Poi nei giorni successivi sono previste repliche in continuazione. E qui scatta la fortuna, perché dal 1° agosto tutta l’attenzione di media e social si concentra sulla querelle della pugile algerina alle Olimpiadi e della rinuncia a combattere da parte dell’avversaria italiana, immediatamente adottata dalla destra italiana di governo.

Che c’entra?, diranno i miei venticinque lettori. C’entra, c’entra, se avete un po’ di pazienza. Perché il documentario, che si intitola K2 La gloria e il segreto, cuce insieme tre storie, tre letture della grande e drammatica impresa. La prima è quella affidata alle parole di Giuseppe Cederna. Mi pare la meno convincente. Anche se l’attore è come sempre bravo, e riesce a evitare il rischio della retorica, la lettura omerica, meglio omerico-dantesca, dell’eroe che sfida l’ignoto, il pericolo mortale per sete di conoscenza, per vedere oltre i confini stabiliti è una lettura un po’ prevedibile. Molto più interessante la seconda, quella a cui si riferisce “il segreto” evocato dal titolo. Qui c’è tutta la vicenda del dissidio (malinteso? rivalità? scorrettezza?) tra Bonatti da una parte, Lacedelli e Compagnoni dall’altra. Una vicenda all’inizio taciuta nella versione ufficiale che attribuisce l’impresa alla spedizione senza citare i nomi, poi esplosa in seguito a un’intervista, finita in tribunale e mai sanata, anzi diventata con il passare degli anni una ferita sempre più grave.

Il documentario la ricostruisce attraverso interviste nuove o di repertorio ad alpiniste e alpinisti, giornalisti e storici, tra cui si distingue per puntualità di analisi e serenità di giudizio Mauro Corona (no, non sto facendo dell’ironia). E’ una ricostruzione di una storia imbarazzante fatta senza peli sulla lingua, senza paura di sporcare una grande storia ma anche senza pescare nel torbido, con la giusta distanza, il rigore e il tono dignitoso che una storia con risvolti tragici richiede.

Ma non è tutto, perché c’è una terza componente ancor più interessante, quella politica. L’impresa del K2 fu infatti una scelta politica. E’ diffusa l’idea che l’uso politico dello sport sia una tendenza propria delle dittature, dei regimi autoritari e nazionalisti che si servono delle vittorie sportive per generare il consenso e il prestigio. Ma non è così: anche all’interno delle democrazie, della loro affermazione e della loro storia si trovano esempi di uso politico dello sport. La vicenda del K2 ne è un chiaro esempio. In quella giovane democrazia italiana dei primi anni Cinquanta, alle prese con una difficile ricostruzione e con il peso delle nefandezze del fascismo che ancora gravava sul suo prestigio internazionale, arrivare per primi su quell’impossibile vetta sarebbe stato un modo per far conoscere a tutto il mondo le eccellenze, le capacità del bel paese. Dove l’anno prima non erano riusciti gli americani, sarebbero arrivati gli italiani.

Fu il primo ministro Alcide De Gasperi a sposare in pieno questa causa, facendo per la sua buona riuscita qualche concessione alle componenti fasciste presenti nel progetto. Fascista era l’idea originaria, un progetto del 1928 pensato per celebrare la vittoria della Grande guerra e poi abbandonato da Mussolini che temeva un secondo flop dopo quello di Nobile. Con evidenti nostalgie era l’ideatore e capo supremo della spedizione, Ardito Desio. A un certo punto nel documentario compare un’intervista a Desio persino esilarante nella sua ingenuità. Siamo in un talk della Rai degli anni Ottanta e il giovane conduttore chiede a Desio che cosa in positivo e cosa in negativo ha rappresentato il ventennio. E Desio risponde che tra le cose positive c’era di certo il senso di disciplina, che, sia pur con metodi autoritari, il regime ha diffuso tra gli italiani, come rivelava l’eroico comportamento dei ferrovieri. La faccia dell’intervistatore è uno spettacolo straordinario, alla scena manca solo Massimo Troisi con la battuta che gli costa cara in Le vie del Signore sono finite.

Insomma il documentario ci ricorda come non mancarono scelte politiche di un certo orientamento nell’allestimento della spedizione, nella composizione della squadra da cui fu escluso un grande alpinista come Cesare Maestri perché di famiglia comunista. Eppure al di là di queste preclusioni, appare chiaro come quell’impresa sportiva fortemente segnata dalla politica nei fini e nei mezzi fosse un progetto di grande respiro, con uno sguardo rivolto al futuro del paese, all’allargamento dei suoi orizzonti e dei suoi rapporti con il resto del mondo. Ecco perché un documentario come questo ha un senso particolare in giornate come queste, in cui dell’uso politico dello sport si fa un gran parlare. Una vittoria, un atleta, una squadra può essere il mezzo per aprire una strada nel mondo al proprio paese, in senso letterale e metaforico come fece De Gasperi ,oppure un banale pretesto da sfruttare in modo maldestro come si è visto a Parigi.

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