Corse, corsi e ricorsi della storia olimpica. Livio Berruti trionfò alle Olimpiadi di Roma nei 200 metri, spezzando il dominio Usa. Quattro anni dopo, ai Giochi di Tokyo del 1964, riuscì a qualificarsi ancora per la finalissima dei 200: era considerato un veterano ma aveva appena 25 anni. Non confermò la vittoria romana: si piazzò quinto (e Sergio Ottolina…ottavo, nomen in omen). Ecco, il copione italico si è ripetuto domenica 4 agosto, all’Olimpiade di Parigi, sulla pista violetta dello Stade de France, davanti a 75mila spettatori equipaggiati con led per i giochi di luce della presentazione fantasmagorica della gara più attesa, ossia la resa dei conti nei 100 metri maschili. Infatti Marcell Jacobs, pettorale rosa che indossano i campioni olimpici uscenti, entrato tra i migliori finalisti con un tempo di ripescaggio, ha onorato il titolo conquistato a Tokyo e si è piazzato quinto, in 9 secondi e 85 centesimi, un ottimo tempo, una prestazione cui pochi credevano.

E’ stato il cento metri più serrato ed incerto mai visto, da quando ci sono le Olimpiadi moderne: tra il primo e l’ultimo poco più di undici centesimi, tra il primo e il secondo un filo d’erba, cinque millesimi di secondo, una misura che solo le apparecchiature più sofisticate possono rilevare. Il ventisettenne americano Noah Lyles, rock star dell’atletica, ha battuto il ventitreenne giamaicano Kishane Thompson 9’784 a 9’789. Jacobs, penalizzato dalla corsia più esterna, è rimasto staccato di appena sei centesimi dall’oro, quattro dal bronzo. Cioè un soffio, mezzo passo: “Volevo l’oro”, dirà ai microfoni della Rai, con un pizzico di mitomanìa. Ma i velocisti, si sa, sono narcisisti…

E tuttavia, in questa onorevole sconfitta, c’è tutto il senso del campione, ossia quello di dare tutto, e magari anche di più. Solo Carl Lewis ed Usain Bolt, autentici fuoriclasse, sono riusciti a riconfermare il titolo olimpico. Sono l’eccezione. Jacobs, comunque, col tempo segnato in finale, ha tagliato la lingua ai detrattori, scettici sulla sua ritrovata competitività, dopo aver clamorosamente divorziato dal suo allenatore l’anno scorso, ed avere scelto di ricominciare da capo allenandosi (fisicamente e soprattutto mentalmente) a Jacksonville, in Florida, peraltro lo stato di Lyles. Lì le strutture sportive sono all’avanguardia, di gran lunga più efficienti e migliori rispetto a quelle romane: questione di investimenti, e business. Gli sponsor hanno indubbiamente avuto la loro parte, nella scelta di Jacobs, e pure la compagnia di atleti d’alto livello è stata efficace. Gli ha ridato consapevolezza del proprio potenziale, e carica agonistica, come ha dimostrato sia in batteria (secondo), sia in semifinale, sempre in crescendo. Nelle interviste dopo la gara, Jacobs ha manifestato la sua insoddisfazione, sperava nel grosso colpo, il suo sguardo trasmetteva delusione e rabbia per avere mancato il podio, ma con altrettanto vigore ha affermato che la sua avventura sportiva non si è chiusa allo Stade de France. Che non si arrende. Non si accontenta. E’ stato battuto, non distrutto. E’ ancora lì, il miglior velocista d’Europa. Sente di aver l’aquila in corpo (come dicono in Corsica: “avé l’acula in corpu”). Sente di aver difeso la sua identità di campione, la propria vicenda sportiva ed umana, e di avere ancora sogni da inseguire ed esaudire.

Soprattutto, sa che Noah Lyles non è imbattibile. Che potrebbe essere alla sua portata. Noah ha strappato il titolo olimpico per un nonnulla a Thompson che è molto più forte, ma ancora non in grado di reggere lo stress di una finale a cinque cerchi. Nelle serie era stato battuto dal britannico Louie Hinchcliffe (9’98 a 10’04), idem in semifinale, secondo dietro il giamaicano Oblique Seville (9’81 a 9’83). Lo ha salvato l’estrema alta considerazione che ha di sé e la consapevolezza che è pur sempre triplo campione mondiale in carica: ha vinto a Budapest tre titoli nel 2023: 100, 200 e 4×100. Qui a Parigi ha promesso di ripetersi, anzi sostiene di voler fare quaterna dichiarandosi “disponibile” per la staffetta dei 400 metri come ai mondiali indoor di Glasgow, all’inizio di marzo, dove gli Usa furono secondi (ma nessuno ci crede…).

Jacobs non ha queste ubbìe, bada al sodo, alle possibilità del suo fisico che spesso e volentieri gli presenta il conto. Il dolore sovente suo compagno di corsìa. La staffetta è l’altro titolo di Tokyo da difendere, l’altra grande sfida da sostenere. L’effervescente Lyles è invece sicuro di vincere tutto. Lo proclama ai quattro venti, al contrario del corrucciato Marcell: loro due sono come il giorno e la notte, e poi, nei pensieri di Marcell si è aggiunta la preoccupazione di una fastidioso indolenzimento ad un adduttore, si spera rimediabile in fretta. Gli atleti di alto livello sono strumenti delicati, se hanno qualcosa l’occultano abilmente, perché in fondo è nella testa che si guarisce, oltre che nel corpo. Sono diversi da tutti noi… Già. La staffetta 4×100. L’Italia deve difendere il titolo olimpico, ha conquistato poche settimane fa il titolo europeo con disarmante facilità ma gli Stati Uniti e Giamaica sono oggettivamente più forti, il Giappone è insidioso, come la Gran Bretagna e il Canada. Pragmatico, Jacobs si concentra sull’obiettivo (lascia sfogare Lyles nei 200), è lui il nostro primo staffettista. Se va forte, la staffetta regge.

C’è poi da dire che Jacobs è meno esibizionista del rivale, e anche meno Rodomonte. Beh, talvolta gli capita di alzare il mirino, ma è tipico degli sprinters, che sapendo di essere gli uomini più veloci del mondo, puntano sempre in alto. Il fatto è che Lyles ha ambizioni, diciamo così, culturali e politiche. Vuole “trascendere l’atletica” e “trasformare i miei cento metri per diventarne il simbolo”, ha dichiarato a Time Magazine, “amo questo sport ma rifiuto di lasciarlo al livello in cui si trova. Altri sportivi sono rock star, riconosciute ovunque. Deve essere la stessa cosa per l’atletica. Non sarò felice fin quando questo non avverrà”.

Jacobs naviga su livelli meno pretenziosi, tantomeno ha velleità così plateali da showman, non scuote il pubblico con i suoi lazzi (prima della finale, è stato persino esagerato, spingendosi sino a quaranta metri dalla partenza, i giudici non sapevano come frenarlo), di solito prima di ogni gara, l’americano ha l’abitudine di estrarre delle carte da gioco manga e ne mostra la combinazione alle telecamere. Ama arrivare allo stadio indossando tenute a dir poco stravaganti che lui stesso disegna; si tinge le unghie coi colori Usa, vorrebbe incarnare la specialità come un tempo sapeva gestire l’inarrivabile Bolt. Smessi i panni del velocista, diventa un rappeur (cliccate cercando Nojo18), ma chi ha avuto il coraggio e la curiosità di ascoltarlo dal vivo gli ha suggerito di smetterla, non si può essere al top in tutto…però ha tanta faccia tosta, si esibisce lo stesso con l’amico Snoop Dogg, invita gli atleti del suo gruppo d’allenamento a casa sua per giochi di società durante i quali racconta le sue esperienze, sorta di Velocisti Anonimi…ed è pure impegnato politicamente perché non ha paura di difendere il movimento Black Lives Matter. Di sé dice: “Sono come un tornado, una tempesta perfetta”. Jacobs ha retto il vento, non si è fatto travolgere. E’ stato sconfitto. Ma di misura.

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