Quando ha lasciato l’Italia per la prima volta, nel 2002, non pensava di dover cambiare 18 domicili in 17 anni, quello che lui definisce un piccolo record. Non è facile, certo, se si sommano anche i cambiamenti di Stato. Ma è una cosa che si mette in conto nel momento in cui si espatria. Paolo Terziotti ha 53 anni, è originario di Verona ed è partito per lavoro prima in direzione Polonia, poi verso gli Emirati Arabi Uniti, dove oggi è consulente dell’accademia di polizia di Abu Dhabi e membro della commissione per le prove di idoneità fisica. Da 23 anni ha lasciato l’Italia e non ha intenzione di tornare.

Ad essere sincero non ricorda il giorno esatto in cui ha lasciato il suo Paese, ma quanto freddo faceva. “Era novembre, e quando sono arrivato in Polonia la temperatura si aggirava intorno ai -23°, con neve e ghiaccio”. Con una maturità scientifica, una laurea in scienze motorie e un dottorato in fisiologia cardiovascolare in quello che è attualmente il dipartimento di neuroscienze “Rita Levi Montalcini” di Torino, Paolo ha iniziato il percorso accademico pensando di diventare prima ricercatore e poi professore. “Ma sono incappato anche io in quel fenomeno tipicamente italiano conosciuto come baronismo universitario”. Deluso dal mondo accademico, accetta la proposta di Marek Kosminski (ex calciatore professionista polacco) di fare il preparatore atletico nella squadra della serie A polacca (il Gornik Zabrze). Qui conclude il suo dottorato e inizia la carriera di preparatore atletico, con alcune importanti vittorie e partecipazioni a manifestazioni come Champions League, Europa League e la Champions League asiatica.

Per oltre dieci anni Paolo gira tutta la Polonia, tra Cracovia, Poznan, Varsavia, Stettino, lavorando come preparatore di diverse squadre di calcio nazionali. Poi, nel 2012, arriva prima il trasferimento in Arabia Saudita e poi negli Emirati Arabi per seguire, anche questa volta, una squadra come preparatore atletico, l’Al-Jazira Club. Nel 2019 abbandona la carriera calcistica e accetta la proposta del ministero degli Interni degli Emirati come consulente per la salute e l’attività fisica. “Quando vai in un nuovo Paese – racconta nella sua intervista al ilfattoquotidiano.it – devi capire la cultura e comprenderla”. Se la Polonia era molto “chiusa” e si manifestava come un Paese “molto orgoglioso” (“mi sono trovato nella situazione in cui i polacchi mi vedevano come un estraneo che semplicemente rubava loro il lavoro”), l’esperienza nel golfo Persico è stata ancora più complicata: “Gli Emirati nel 2012 erano ancora più chiusi culturalmente, ma l’espatriato occidentale veniva rispettato: i locali sono consapevoli che c’è bisogno della nostra conoscenza e cultura del lavoro”. “Mia moglie in Arabia Saudita – ricorda Paolo – non poteva guidare e doveva indossare l’abaya. Aveva sempre un velo in borsa perché, quando la polizia religiosa ti faceva notare che non lo indossavi, la cosa più saggia da fare era scusarsi e metterlo”.

Paragonare Emirati Arabi e Italia è praticamente impossibile, aggiunge. Si tratta di due sistemi di “mentalità, mercato del lavoro e di governo completamente differenti”. In un Paese di quasi 10 milioni di abitanti i cittadini con passaporto degli Emirati Arabi Uniti sono il 10%. L’altro 90% è rappresentato da lavoratori espatriati provenienti da tutto il mondo. “Gli emiratini sono contenti e fieri del loro governo, anche grazie al grandissimo lavoro compiuto da Zayed bin Sultan al Nahyan per unificare e modernizzare il Paese”. Abu Dhabi, continua, è una città molto ben progettata, estremamente sicura, con numerosissimi spazi pubblici dove passare il tempo libero, fare sport, visitare una mostra. Inoltre, aggiunge, è molto tollerante. “Nel mio quartiere hanno recentemente costruito la casa di Abramo, un complesso dove ci sono una moschea, una chiesa cattolica e una sinagoga. Il governo degli Emirati fa un enorme lavoro per incentivare la tolleranza tra i popoli”.

Per l’esperienza che ha avuto modo di fare, al contrario, in Italia tendenzialmente il “mercato del lavoro è clientelare”. Negli Emirati questa concezione, spiega Paolo, non esiste. “Non ho fatto alcuna richiesta per il lavoro che oggi ricopro come consulente al ministero degli Interni: cercavano una persona con determinate caratteristiche e sono arrivati a me attraverso una ricerca su Linkedin. Da noi – aggiunge – questa cosa sarebbe chiaramente impossibile”.

Vivere negli Emirati Arabi significa dover scendere a compromessi? Quelli più importanti li ha dovuti sopportare mia moglie, risponde Paolo. “Senza il suo sacrificio non sarei dove sono. E per questo le sono molto grato”. Ma trasferirsi fa parte di un più ampio percorso di vita e di carriera. Suo figlio, otto anni, ha vissuto la maggior parte della sua vita negli Emirati. “È molto integrato con questa città e in classe è l’unico italiano con indiani, pakistani, sudafricani, libanesi, coreani, cinesi, australiani e locali”. L’università italiana, per come l’ha vissuta Paolo, si è dimostrata un luogo dove è difficile innovare, portare nuove idee ed essere apprezzati per questo. “La vita universitaria è triste e disillude molto presto”. I giovani che arrivano con entusiasmo “alla fine devono adattarsi al sistema: una situazione frustrante”.

Paolo ha imparato che nella vita da emigrato non c’è niente di scontato. Ha cercato di tornare in Italia, qualche volta, ma le strade sono sempre state chiuse. Per questo il rapporto con l’Italia resta a metà tra amore e odio. Da una parte l’orgoglio di essere rappresentante della cultura italiana all’estero, dall’altra – aggiunge – non può “non essere critico con la lenta e inesorabile decadenza a cui il nostro Paese sta andando incontro”. Decadenza che Paolo definisce culturale, politica, organizzativa e di conseguenza economica. “Quando vedo l’enorme potenziale del nostro Paese e degli italiani continuamente oppresso dalla corruzione e dal clientelismo imperante – conclude – è difficile non essere delusi e arrabbiati”.

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