Via il redditometro, sì all’accertamento sintetico ma solo se la distanza tra le spese sostenute e il reddito dichiarato supera la bella cifra di 70mila euro. È questo il punto di caduta dello psicodramma iniziato a maggio quando il viceministro dell’Economia con delega al fisco Maurizio Leo ha riattivato lo strumento contro cui il centrodestra si era sempre scagliato, salvo essere costretto a rimangiarsi tutto dopo 24 ore di attacchi da parte del resto della maggioranza e l‘intervento di Giorgia Meloni. Il decreto correttivo su adempimento collaborativo e concordato, appena pubblicato in Gazzetta ufficiale, elimina dalle norme sull’accertamento datate 1973 la parte che consentiva di determinare i redditi presunti del contribuente – da confrontare poi con quelli dichiarati – anche sulla base di stime Istat e altri parametri non personalizzati.
Uno stop definitivo, dunque, dopo quello temporaneo che era stato deciso nel 2018 dal governo Conte 1 in attesa di ridefinire gli elementi di cui tener conto per calcolare la capacità contributiva. Non viene cancellato, però, il resto dell’articolo 38 del decreto 600 del 1973, che disciplina la “Rettifica delle dichiarazioni delle persone fisiche”. L’Agenzia delle Entrate dunque potrà ancora “determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente sulla base delle spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo d’imposta”, ma senza ricorrere a contenuti induttivi (spese medie Istat e simili). A cambiare però sono i paletti che limitano il ricorso a questo tipo di accertamento: al requisito che il reddito complessivo accertabile sia superiore di almeno il 20% a quello dichiarato il governo Meloni ha aggiunto un altro parametro quantitativo. L’amministrazione finanziaria potrà procedere solo se la differenza è pari ad “almeno dieci volte l’importo corrispondente all’assegno sociale annuo“, che oggi è 6.947,33 euro. Morale: l’accertamento sintetico scatterà solo in presenza di uno scostamento di quasi 70mila euro.
L’obiettivo dichiarato dalla maggioranza è “stanare i grandi evasori” o (a seconda delle veline inviate alle agenzie di stampa) “coloro che non hanno mai dichiarato niente”. Vasto programma se si considera che al momento gli accertamenti sintetici sono del tutto residuali, come ricordato a maggio anche dal numero uno delle Entrate Ernesto Maria Ruffini. Vale a dire che contribuiscono poco o nulla alla lotta al nero. Nel 2023, rileva la Corte dei Conti nell’ultima Relazione sul rendiconto generale dello Stato, sono stati solo 344 (81,4% in meno rispetto al 2019) e hanno consentito di scovare 144 evasori “totali o paratotali” incassando la miseria di 3,7 milioni a fronte di 27,6 milioni in teoria dovuti. L’anno prima erano stati 352 per 156 evasori totali scoperti, 15,3 milioni di maggiori imposte e sanzioni accertate e solamente 805mila euro recuperati (vedi tabella sotto).
Briciole, come si vede, rispetto agli 80-90 miliardi di evasione annua. Che semmai va affrontata attraverso la mappatura del rischio fiscale, utilizzando i dati dell’Anagrafe dei rapporti finanziari in cui sono racchiusi saldi e movimentazioni annuali dei conti correnti: strumenti che ora l’amministrazione fiscale ha a disposizione, anche se non c’è alcuna trasparenza su quanto siano effettivamente sfruttati per selezionare i contribuenti da sottoporre a controlli. Di certo la destra di governo si guarda bene dal parlare di queste armi anti evasione molto simili a quello che la premier Meloni e il vice Matteo Salvini amano definire “Grande fratello fiscale“. Meglio spostare l’attenzione su altro, il redditometro appunto, vantando – copyright il leader della Lega – lo stop a uno “strumento intrusivo di un fisco nemico di cittadini e lavoratori”.