L’esperimento cruciale, un passo in avanti decisivo per la storia dell’umanità, fu condotto in pubblico da Antoine-Laurent de Lavoisier alla fine del XVIII secolo. Dimostrò ai parigini che l’acqua non era un elemento, bensì una sostanza composta da due elementi, idrogeno e ossigeno (vedi Figura). Nonostante che la dimostrazione pratica di Lavoisier non lasciasse dubbi, vari scienziati vi si opposero, diffidando del lavoro che convalidava le teorie un po’ strampalate di Cavendish. E soltanto nel 1811 Amadeo Avogadro Conte di Quaregna e Cerreto, un altro scienziato-gentiluomo, scoprì la formula ben nota oggi a ogni alunno delle elementari: H2O.
Nessuno può dubitare scoprire la natura chimica dell’acqua, frutto di teoria e di sperimentazione pratica assieme, abbia aperto nuovi orizzonti culturali. Coltivare e trasmettere la cultura è un compito universale a cui ogni persona è chiamata, non soltanto i gentiluomini-scienziato. Chi dovrebbe coltivare e trasmettere la cultura istituzionalmente? Secondo la Magna Charta Universitatum firmata a Bologna nel 1988, “l’università opera all’interno di società diversamente organizzate sulla base di diverse condizioni geografiche e storiche ed è un’istituzione autonoma che produce e trasmette criticamente la cultura mediante la ricerca e l’insegnamento”. Secondo il modello accademico introdotto da Wilhelm von Humboldt un anno prima che Avogadro pubblicasse la sua formuletta, la vera educazione non consiste nel riempire la mente di conoscenza, ma nell’addestrarla a pensare. La caratteristica peculiare della università dovrebbe perciò consistere nell’insegnare a studiare.
Che cos’è la cultura? Secondo la Enciclopedia Treccani, la cultura è “l’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo. […] . In senso più concreto, e collettivo, l’alta cultura è quella che si acquisisce attraverso gli studi universitari, e le persone stesse (laureati o docenti) che ne sono gli esponenti”.
Con il passaggio dall’università humboldtiana, modello di riferimento universale per quasi due secoli, al modello attuale si è consumato un passaggio epocale. L’università di oggi—battezzata utilitaristica dagli ottimisti e mercatistica dagli scettici—non mira più alla educazione, ma è orientata all’addestramento. La formazione è diventata esclusivamente funzionale al lavoro; e lo fa per venire incontro alla domanda della società—società dei consumi, del mercato o dello spettacolo che sia. Sempre di più gli studenti s’intestardiscono a chiedere ‘conoscenze pratiche’ e, di fronte a qualunque culturale, si estraniano perché vogliono imparare le cose pratiche, come memorizzare che l’acqua fa H2O senza se e senza ma. Ignorano che, se comprendessero come l’uomo abbia conseguito questa banale conoscenza, potrebbero non soltanto partecipare allo sviluppo del pensiero umano, ma perfino risalire alla radice di molte cose pratiche, dalla costruzione degli acquedotti e delle piramidi al commercio, l’agricoltura, lo sviluppo urbano, rurale e montano.
Nella vulgata comune, la formazione viene oggi declinata come un addestramento a fare, non l’allenamento a pensare. Abdicando alla funzione educativa in senso generale, l’università moderna mostra la sua crisi più profonda. Per preparare un giovane a fare l’ingegnere, l’architetto, il commercialista o l’avvocato non c’è più bisogno dell’università tradizionale, quella residenziale, perché la tecnologia offre infinite alternative, dalla università telematica—tutto sommato abbastanza simile al modello tradizionale—ai modelli più spinti di formazione a distanza che l’intelligenza artificiale renderà sempre più alla portata di ognuno, con buona pace dei dotti denigratori della beneamata, pioneristica Scuola Radio Elettra.
Non so se l’utopia della Slow University abbia un senso pratico. Ma non vedo molti altri segnali di ripensamento del modello utilitaristico, nonostante che il mondo si muova con grande rapidità, perfino nel campo dell’alta formazione. Ogni epoca segna una transizione e non possiamo adagiarci nell’illusione di vivere in una particolare “epoca di passaggio”; ogni epoca ha segnato un passaggio e siamo tutti di passaggio. Né lamentarci di non capire perché tutto evolva rapidamente. È sempre stato e percepito così, tranne che per il clima. Se il tempo si biforca perpetuamente verso innumerevoli futuri, in uno di questi futuri potrebbe anche realizzarsi l’utopia della Slow University e della Slow Science. Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano (J.L. Borges, Finzioni, 1941)