Con ipocrita lentezza, il Comitato olimpico canadese ha revocato a Rana Reider, il coach di Marcell Jacobs considerato un guru dello sprint, l’accredito (“P”, che permette di accedere ai siti di allenamento e di gara) ai Giochi di Parigi, ma solo dopo che si è disputata la finale dei 100 metri, la gara più attesa delle Olimpiadi, la “vetrina” dell’atletica leggera e dello sport. In realtà, l’associazione Usa Track&Field – ossia la federazione di atletica statunitense – aveva avvisato venerdì scorso i canadesi dell’inopportunità di avere il coach di André De Grasse, campione olimpico uscente dei 200 metri, quale membro della squadra dei velocisti, dati i precedenti giudiziari, peraltro stranoti a tutti dal 2022, quando tre atlete si rivolsero ad un tribunale della Florida per denunciare Reider di “abusi sessuali ed emotivi” avvenuti nel novembre dell’anno prima: una ha affermato di avere subito “abusi sessuali ed emotivi e molestie”; una seconda, di “molestie sessuali e verbali”. La terza ha scelto l’anonimato.

I fatti risalgono al novembre del 2021. Insomma, precedenti ben conosciuti, stranoti, seguiti da polemiche, minacce, richieste di indennizzi. Ma anche da finzioni e sguardi dall’altra parte, quelli di chi non ne ha tenuto conto, e si è affidato alle oggettive capacità di un allenatore tanto bravo quanto discusso e discutibile. Per capirci: lo scorso maggio il cinquantatreenne Reider ha finito di scontare una condanna di dodici mesi che gli era stata inflitta per una presunta relazione “con uno squilibrio di potere” nei confronti di un’atleta britannica che aveva ventisei anni di meno, e questo quando ricopriva l’incarico di responsabile dei velocisti e delle staffette inglesi (la ragazza si è poi trasferita in Italia per allenarsi). La notizia era apparsa su tutti i giornali e sul web, impossibile ignorarla. Inoltre, a Reider non avevano concesso il pass per i Mondiali di atletica sia del 2022 che del 2023, a Budapest. Per rimediare all’ostracismo perpetuo, Reider ha dovuto ammettere agli ispettori dell’US Center for SafeSport che aveva avuto una “relazione romantica consensuale con un’atleta maggiorenne” (come hanno riportato i media americani anche giorni fa).

La federazione canadese non poteva ignorare questi imbarazzanti precedenti, eppure ha portato Reider a Parigi, così come gli organizzatori dei Giochi e il Cio hanno fatto finta di niente, quando gli hanno rilasciato il pass. Quanto a quella italiana, formalmente non è rimasta coinvolta: la patata bollente è rimasta a bollire nella pentola del Canada…Sino a quando gli americani non hanno deciso di spegnere il fuoco e gettarla dalla finestra. Gli Stati Uniti temono i canadesi nella staffetta e De Grasse sui 200 che si stanno disputando in queste ore: hanno deciso così di imporre tutto il loro peso, buttandola non solo su motivazioni etico-sportive ma soprattutto sul fronte diplomatico. I loro vicini hanno la coda di paglia, non essendo nuovi a problemi di una certa opacità.

Nessuno, infatti, ha dimenticato la gran madre degli scandali olimpici, e non solo: la truffa dei 100 metri ai Giochi di Seul del 1988, quando il canadese Ben Johnson vinse in modo esagerato battendo Carl Lewis, la stella Usa. Fu gloria assai effimera: poche ore dopo venne beccato positivo all’esame antidoping e squalificato a vita. Aveva dominato la corsa stabilendo il record con uno strabiliante 9’79 centesimi, persino Gianni Brera (lo ricordo, perché eravamo assieme a vedere la gara), scrisse che Ben gli era apparso come “ultima incarnazione di Ercole semidio”. Furono i cento metri più sporchi della storia (c’è un famoso libro di Richard Moore col titolo “the Dirtiest tace in History”), il Canada perse tutti i record nazionali e continentali, Johnson i miliardi degli sponsor, si scoprì che il medico della squadra canadese iniettava agli atleti (non si è mai approfondito quanti ne fossero consapevoli) un medicinale per cavalli, ormoni che ne potenziavano forza e resistenza. Si aprì il vaso di Pandora dell’imbroglio che aveva intaccato, macchiandola per sempre, la gara più simbolica ed emblematica delle Olimpiadi: rivelando il segreto di Pulcinella, ossia che il doping era una pratica diffusa, non solo nei Paesi dell’Est (come la Ddr), e che i dopatori stavano sempre un passo avanti ai controlli. Salvo a Seul, quando gli americani fecero potenziare di dieci volte le tarature standard dei controlli affidati all’azienda Usa Hewlett&Packard. Come mai?

Stavolta, il doping (si spera) non c’entra. Alla ribalta c’è la formula sesso e sport: funziona sempre, è una dinamica consueta, preda dei tabloid e delle aule di tribunale, basta leggere le cronache. Ryan Stevens, l’avvocato che difende Reider, ovviamente ha dichiarato che il ritiro dell’accredito è ingiusto, secondo lui basato su una causa “intentata da un ex atlete che cercano solo guadagno economico”, la dialettica di queste situazioni fa purtroppo risaltare meschinità e diritti calpestati, per il legale Reider non avrebbe sanzioni in sospeso da parte di nessun organo direttivo, e ne approfitta per denunciare “la cattiva pubblicità” dell’azione contro il suo cliente, “un brutto giorno per le Olimpiadi, gli unici ad esserne danneggiati sono gli atleti, costretti a gareggiare senza il loro allenatore”, ma anche questa è una sonora balla, ormai le tecnologie permettono di farlo anche se ti hanno allontanato dagli stadi, la messa a punto dei velocisti è ormai stata completata, e, per quanto riguarda le staffette, basta trovare un luogo che non sia parte dei siti olimpici. Con buona pace dello spirito olimpico, da tempo ormai messo in soffitta, come tutti gli oggetti vecchi che non ci piacciono o non ci servono più, però li mettiamo da parte, chissà, un giorno…

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