La Cgil ha raccolto più di quattro milioni di firme per chiedere il referendum abrogativo sul Jobs Act del Pd di Renzi. L’idea è quella di riportare l’orologio indietro allo Statuto dei Lavoratori e quindi all’obbligo del reintegro per il licenziamento senza giusta causa. Un primo tentativo di referendum nel 2017 è stato bocciato dalla Corte Costituzionale per la complessità del quesito. Ora i giuristi della Cgil hanno elaborato un testo diverso e più chiaro. Vediamo se stavolta si arriva alla pronuncia popolare. Con una certa ironia, la controriforma di Renzi venne chiamata contratto a tutele crescenti, quando invece eliminava l’unica vera tutela, cioè il reintegro, sostituendola con una indennità. Essendo comunque applicabile solo ai nuovi assunti, la riforma renziana passò forse anche perché accompagnata dal bonus fiscale degli 80 euro.
Ora il fatto notevole è che il Pd ha cambiato linea. Non tutto, ma sicuramente la sua segretaria che si era candidata con un programma che, tra l’altro, prevedeva proprio l’abrogazione della normativa Renzi, considerata un macroscopico errore. E così ha fatto, firmando i quesiti referendari. Un raro caso di coerenza politica. Diversa era invece la posizione di Bonaccini, il suo competitor alla segreteria, che voleva affrontare i problemi del mondo del lavoro con le proposte della premier Meloni: sconto sugli oneri sociali e maggiore formazione. È andata come è andata. All’interno degli iscritti del Pd ha vinto la linea conservatrice di Bonaccini, forse per la consueta lealtà al partito, ma il fronte progressista, decisamente più ampio, ha premiato in una competizione aperta Schlein.
Le due anime del Pd si guardano ancora in cagnesco ma la nuova segretaria per ora ha ragione, rivitalizzando i risultati elettorali del Pd che rischiava di andare verso il 10%, altro che vocazione maggioritaria. Firmando contro il Jobs Act, Schlein ha reciso ogni legame con il vecchio Pd conservatore di Renzi. Questa è la cronaca politica. Ma almeno, la riforma renziana ha mantenuto le promesse creando quel milione e più di posti di lavoro, già millantati e spesi più volte in campagna elettorale dal fu Berlusconi? I renziani gongolano e dicono di sì, ma i dati sono ben diversi dalla loro narrazione.
Partiamo dal livello internazionale. Il mercato del lavoro è da mesi eccezionalmente forte in tutti i paesi industrializzati dove si è raggiunto il record di occupati. Negli Stati Uniti in primo luogo, dove la bistrattata nei sondaggi Bideneconomics ha innescato una forte crescita degli occupati, ma anche in Germania e Francia. In Germania l’occupazione ha raggiunto il massimo storico di 45,3 milioni di occupati superando il picco del 2019. Situazione analoga in Francia dove l’occupazione è a livelli record con 30.454.000 occupati. Lo stesso è accaduto in Italia dove gli occupati sono 23.975.000. Non ci sono mai stati tanti occupati nel nostro paese. Qualche perplessità deriva dalla qualità dei lavori offerti, visto che la crescita del lavoro è superiore a quella del Pil, segno che i nuovi assunti danno un modesto contributo produttivo e di conseguenza percepiscono un basso salario. L’occupazione cresce, ma con essa anche i working poor, i lavori precari o a basso salario.
Quindi l’Italia è dentro ad un ciclo economico internazionale molto positivo dal punto di vista delle quantità delle assunzioni, meno da un punto di vista della qualità del lavoro e del salario. L’occupazione segue il ciclo economico internazionale e non il Jobs Act di Renzi.
Questa conclusione risulta rafforzata se noi ampliamo l’orizzonte e guardiamo i dati del mercato del lavoro degli ultimi venti anni dal punto di vista dell’occupazione. I numeri mostrano un andamento molto particolare. Nel 2010 gli occupati erano 21.450.000 e poi è cominciato un lungo ciclo positivo che ha portato l’occupazione a un primo massimo storico nel 2018, con 23,2 milioni di persone occupate. Poi è arrivata la crisi finanziaria del 2018 ed è cominciata una recessione che ha distrutto quasi due milioni di posti di lavoro, con un minimo di 22.100.000 a fine 2019. Infine è ricominciato un nuovo ciclo espansivo molto robusto, se lasciamo stare l’interruzione da pandemia, che dura tuttora e non è stato intaccata dall’inflazione bellica. L’occupazione ha recuperato e anche superato il picco del 2018. La conclusione, pur grezza, è che la libertà di licenziare del Jobs Act ha contato poco. Sono le dinamiche del Pil che muovono l’occupazione e non quelle della politica. Può darsi che qualche refolo renziano ci sia in questo vento favorevole all’occupazione, ma appare del tutto marginale.
Ora il senatore Renzi, con una delle sue giravolte, sta tornando a bussare alla porta della casa dei progressisti. In una democrazia fortemente polarizzata, dove si vince e si perde per poco, non si butta via nulla e quindi si potrebbe attuare la strategia del perdono. Ma la nostra cultura cattolica impone almeno due condizioni: una penitenza e la promessa di non ripetere il peccato. Applicato al caso Renzi questo potrebbe significare che innanzitutto il Machiavelli di Rignano dovrebbe fare ammenda e riconoscere che il Jobs act è stato un grave errore; un regalo, peraltro nemmeno chiesto, a Confindustria che comunque lo ha gradito. E poi dovrebbe smettere di fare il conferenziere per alcuni Paesi arabi, rinunciano ai succulenti gettoni. Peraltro mi sono sempre chiesto quali competenze speciali abbia e se non venga chiamato solo per dare una parvenza di vernice democratica a feroci regimi autoritari. Vernice luccicante e ben pagata.
Comunque, a mio avviso, con queste condizioni anche Renzi potrebbe essere riammesso nella squadra sempre più grande e forte dei progressisti, magari restando in panchina come riserva.