La presenza di mucillagini nell’Adriatico è una delle conseguenze del carico di nutrienti in eccesso che arriva soprattutto dagli allevamenti intensivi della Pianura Padana. Si tratta di un fenomeno naturale e non nocivo, almeno per la salute degli esseri umani, ma che riaccende i riflettori sulla vulnerabilità di questo mare poco profondo, rispetto agli effetti del cambiamento climatico (e al riscaldamento delle acque) e agli impatti diretti delle attività umane delle coste e dell’entroterra. L’Adriatico, infatti, è il recettore delle acque che drenano il grande bacino padano-veneto, con i suoi oltre venti milioni di abitanti, la sua industria e la sua agricoltura e zootecnica intensiva. La presenza di mucillagini lungo litorali e fondali del mare, secrezione naturale delle microalghe, viene alimentata proprio dall’eccesso di nutrienti che, proveniente dalle attività agricole e zootecniche, attraversano quelle acque. In occasione della tappa marchigiana di Goletta Verde, la storica campagna di Legambiente, l’associazione ha spiegato perché il fenomeno quest’anno è particolarmente evidente. Per Stefano Raimondi, responsabile Biodiversità di Legambiente e portavoce di Goletta Verde, la presenza di mucillagini “non rappresenta un rischio per la salute, ma si tratta di un campanello di allarme”. La sola Lombardia (1,5 milioni di bovini e 4,6 milioni di suini), come raccontato da ilfattoquotidiano.it nella recente inchiesta sugli allevamenti, pesa da sola per un quarto di tutti i bovini e per la metà di tutti i suini allevati in Italia, rappresentando quasi la metà di tutto il carico zootecnico delle regioni dei bacini Alto-Adriatico, pur rappresentando solo il 7 per cento della superficie agricola nazionale.
A cosa è dovuta la presenza di mucillagini – “Le forti piogge che hanno interessato tutto il bacino del Po hanno dilavato i terreni agricoli trascinando in Adriatico, attraverso i fiumi, molti più nutrienti rispetto alle precedenti annate siccitose” spiega Legambiente. Si parla di fosforo e azoto che, se presenti in eccesso, sono all’origine del fenomeno dell’eutrofizzazione: “Le alghe acquatiche crescono in modo eccessivo, producendo grandi quantità di biomassa che, decomponendosi, consuma l’ossigeno disciolto in acqua, rendendo l’ambiente inospitale per le forme di vita che dipendono dall’ossigeno, a partire da pesci e molluschi”. Un meccanismo simile a quello che sta avvenendo a Orbetello.
L’eccesso di nutrienti provenienti dalle attività agricole e zootecniche – Molto è stato fatto, negli ultimi decenni, per ridurre i nutrienti che raggiungono il mare attraverso il fiume Po. Dalla progressiva eliminazione dei fosfati nei detersivi, alla realizzazione, ancora incompleta, delle grandi reti di collettamento e depurazione delle acque di scarico, i settori industriale e civile hanno ridotto fortemente l’apporto di sostanze che arrivano al mare. Come raccontato da ilfattoquotidiano.it, meno è stato fatto nel settore agro-zootecnico, anche per ridurre i nutrienti che arrivano da queste attività e che sono i più importanti per quantità. “Agricoltura e, soprattutto, allevamento ai livelli di intensità praticati nel Nord Italia restano la prima fonte di inquinamento da fosforo e azoto, per l’uso eccessivo di fertilizzanti minerali e le enormi quantità di liquami zootecnici sversate nei campi”, spiega Legambiente.
I fertilizzanti chimici dall’agricoltura e i liquami degli allevamenti – Secondo i più recenti dati Istat, le regioni del Nord si intestano un consumo di fertilizzanti pari al 62% del dato nazionale per l’azoto e del 58% per il fosforo. Lombardia ed Emilia-Romagna da sole totalizzano un impiego di 225mila tonnellate di azoto minerale: significa che per ogni ettaro di superficie coltivata, in queste due regioni si utilizza il triplo di azoto rispetto alla media delle altre regioni. Anche per quanto riguarda gli allevamenti intensivi non c’è confronto: la gran parte dell’allevamento intensivo in Italia si concentra nelle regioni del Nord, in stalle che ospitano oltre quattro milioni di bovini (il 67% del dato nazionale) e otto milioni di suini (il 90% della porcilaia nazionale), determinando una produzione di molte decine di milioni di tonnellate di liquami e letami che, spante nei campi, lentamente rilasciano il loro carico di azoto e fosforo.
L’azoto e quel ciclo che non si chiude – Il problema dell’inquinamento da nutrienti è legato alla quantità che le colture vegetali sono in grado di assorbire: nel solo bacino idrografico del Po, a fronte di settecentomila tonnellate di azoto complessivamente distribuite nei campi, le piante possono utilizzarne meno della metà. Ne consegue una perdita di azoto di ben 350mila tonnellate. Sono i fertilizzanti impiegati in agricoltura e i mangimi somministrati agli animali allevati le principali vie di ingresso nel ciclo dell’azoto che si svolge nel bacino del Po. Un ciclo che non si chiude: l’azoto prelevato, principalmente sotto forma di alimenti, quello nitrico ridotto con la formazione di gas che si liberano in atmosfera e quello sottratto negli impianti di depurazione, è comunque molto inferiore a quello che entra nel ciclo, determinando un surplus di quasi 280 milioni di tonnellate di azoto sotto forme di molecole che finisce nei corpi idrici e da qui nel Mare Adriatico. “Nel conto entrano poi le altre fonti di azoto prevalentemente da scarichi civili depurati (27mila tonnellate all’anno)” spiega Legambiente. Il 90% del surplus, però, deriva dalle attività agricole e zootecniche. A questo surplus si somma quello che volatilizza in forma di molecole gassose, principalmente ammoniaca (precursore delle polveri sottili) e protossido d’azoto (gas serra). “Per quanto riguarda il fosforo”, ricorda Legambiente, “anch’esso deriva prevalentemente da fonte agro-zootecnica (73mila tonnellate all’anno) e in minor misura da scarichi civili (2.800 tonnellate annue)”.
Il ruolo dei bacini fluviali di Adda e Oglio – Di fatto, delle 350mila tonnellate perse, secondo un recente studio dell’Autorità distrettuale del Bacino del Po e delle Università di Ferrara, Parma e Torino, 251mila tonnellate finiscono ogni anno nei fiumi e nelle falde e da qui, presto o tardi, nell’alto Adriatico. Spicca il “peso” dei sottobacini della Lombardia orientale, i bacini fluviali di Adda e Oglio, che presentano un carico di Unità di bovino adulto (Uba) anche superiore alle 2 Uba all’ettaro. Qui si concentra, dunque, il nocciolo del sistema zootecnico padano. “Questi due fiumi sono i maggiori tributari di carico d’azoto del bacino, con valori ben superiori a quelli del fiume Lambro, che veicola principalmente azoto derivante da scarichi civili dell’intera conurbazione metropolitana milanese” spiega Legambiente. La strategia ‘from Farm to Fork’ dell’UE fissa al 2030 il duplice obiettivo, per tutti gli Stati membri, di ridurre del 20% il consumo di fertilizzanti e di dimezzare la perdita di nutrienti. Per quanto riguarda gli allevamenti, invece, la sfida è più impegnativa. “Ridurre il numero di animali, in particolare bovini e suini nel Nord Italia e soprattutto in Lombardia, è la strada maestra per una agricoltura più sostenibile e meno inquinante” commenta Barbara Meggetto, presidente di Legambiente Lombardia. Ed è quanto chiede una proposta di legge recentemente depositata in Parlamento da 21 parlamentari di diverse forze politiche.