Buon sangue non mente. Enrico Costa da Mondovì, il deputato di Azione oggi alle cronache come estensore del progetto di rimodulazione della custodia cautelare inserito nel decreto Carceri che ha ricevuto via libera dal governo, è figlio di un colosso del pensiero liberale di lettura malagodiana. Quel Raffaele Costa, vice segretario del Pli, che il suo segretario Renato Altissimo mi descriveva intento a raccogliere ritagli di giornale per i bollettini ciclostilati da inviare ai suoi elettori legge e ordine della Provincia Granda. Sicché il racconto divertito/irridente dell’imprenditore playboy prestato alla politica mi faceva scorrere davanti agli occhi un mondo gozzaniano tra Cuneo e Saluzzo, di salottini dove Signorine Felicita e Nonne Speranza ti offrivano tè e pasticcini, mormorando il “che tempi” di prammatica. Con cui esprimevano il loro garbato dissenso per i cambiamenti in atto, dei quali non comprendevano le logiche.
Di questa società con un piede ancora nel buon tempo antico, Raffaele Costa fu a lungo il portavoce in un partito – come quello Liberale (e di cui l’Azione calendiana è la naturale caricatura) – a lungo affittato alla proprietà edilizia e il portavoce nella politica romana. Con l’attuale erede, il figlio d’arte Enrico, che prosegue nella tradizione di famiglia di deferenza nei confronti dei potenti e di esecrazione delle teste calde che si permettono di criticarli. Sempre nell’ossessione di puntellare l’ordine vigente, per cui chi sta in alto comanda e chi sta sotto obbedisce. Una destra più reazionaria-perbenista che forcaiola-fascistoide, abituata dal milieu di provenienza “Vej Piemunt” a definirsi “liberale” e a considerare i magistrati che dagli anni Novanta abbandonarono il ruolo di guardiani del potere (dalla procura palermitana di Falcone e Borsellino a quella milanese dei Borrelli, Colombo e Davigo) dei pericolosi sovversivi: giustizialisti.
Una concezione che Silvio Berlusconi piegò a proprio uso e consumo diffondendo la menzogna che i potenti non dovevano essere disturbati e che i loro rappresentanti nelle istituzioni fruivano di una sorta di sacralizzazione che li rendeva insindacabili. In quanto “unti dal signore” attraverso il suffragio elettorale. Tutto questo nell’ignoranza che uno dei padri fondatori del liberalismo come metodo dell’ispezionabilità del potere – Charles-Luis de Secondat barone di Montesquieu – aveva posto le basi del costituzionalismo liberale con la teoria della tripartizione dei poteri in legislativo, esecutivo e giudiziario; autonomi e preposti al controllo/bilanciamento reciproco.
Ma nel Vecchio Piemonte si vede che queste idee “moderniste” non sono ancora arrivate. E proliferano gli equivoci. Per cui scatta la solidarietà verso Giovanni Toti, non corrotto ma concussore (era lui a sollecitare i bonifici a fronte dei favori promessi), che ora si atteggia a vittima denunciando un attacco in corso contro di lui che – in effetti – sarebbe finalizzato contro la politica tout court. Lui, che avrebbe redento la Liguria dalla colonizzazione dei “comunisti”. Un artifizio retorico utilizzato a livello nazionale sempre dal suo ex maestro Silvio Berlusconi per impancarsi a salvatore della Patria; gag apprezzata dagli obnubilati che identificano “comunismo” il dovere civico di pagare le tasse (ciò che la bulletta Meloni chiama elegantemente “pizzo di Stato”). Mentre – per restare allo stato dell’arte in Liguria – la sequenza dei governi regionali Burlando-Toti ha relegato la regione nelle posizioni da fanalino di coda nei ranking per le performances socio-economiche.
Ora sarebbe interessante capire se i benpensanti – di cui il figlio d’arte Costa è un indiscutibile esponente – queste panzane per gabellare mercimoni e altre amenità se le bevano davvero. Oppure fanno soltanto finta, in una sorta di solidarietà di classe tra privilegiati protervi. Magari se scatta il riflesso condizionato “oggi a te domani a me”, per cui far passare norme di salvamento per i protagonisti dell’affarismo e della mercificazione del bene pubblico – praticati sotto il sistema del Totigate – non sia altro che un investimento per il futuro; una sorta di polizza assicurativa.
Di fatto è abbastanza rivelatrice la collocazione del Costa figlio d’arte in un partito – come quello di Calenda – in cui è altissima l’influenza petulante di un funzionariato confindustriale con la sindrome della “serva padrona”. Ossia gente che si crede Master of Universe esibendo simboli di status. Tipo l’aquilotto dell’organizzazione padronale. Magari – per il cuneese al rum Enrico – le conferme di rappresentare il migliore dei mondi possibili che assicurano i partecipanti agli inviti del Casino dei Nobili di Savigliano o Casale.