Pubblichiamo un intervento di Paolo Liberati dell’Università Roma Tre, Centro di Ricerca di Economia e Finanza Pubblica (Cefip), e Massimo Paradiso, dell’Università di Bari e Cefip.
Dall’ultima riunione del G20 è emersa l’intenzione di applicare un’imposta minima globale su 3mila miliardari, nella misura del 2% sul loro patrimonio. Una proposta le cui linee essenziali sono anche condivise dalla recente agenda “Tax the Rich” per l’Italia, sottoscritta da numerosi economisti, che prevede, tra altro, l’introduzione di un’imposta progressiva sui grandi patrimoni. L’argomento ricorrente, a giustificazione di questo prelievo, è l’enorme crescita delle disuguaglianze e della concentrazione della ricchezza; una tendenza che, secondo molti osservatori, suggerisce la necessità di porvi rimedio attraverso strumenti tributari. Una giustificazione apparentemente razionale, rafforzata dall’idea di destinare le risorse del tributo al finanziamento di importanti obiettivi pubblici, come sanità, istruzione e lotta al cambiamento climatico.
Con ciò si vorrebbe curare un male delle cui cause generalmente si tace. La concentrazione della ricchezza è stata favorita da decenni di neoliberismo, deregolamentazione dei mercati, politiche di privatizzazione nei servizi di pubblica utilità, indebolimento del potere di contrattazione dei lavoratori con conseguente tendenza al ribasso dei livelli salariali, liberalizzazione dei movimenti di capitale, speculazioni finanziarie di discutibile vantaggio per l’economia reale; nonché dal conseguente anatema sulla spesa pubblica a garanzia di diritti sociali e sul prelievo tributario colpevole di sottrarre risorse ai profittevoli impieghi del mercato. Tutto ciò ha determinato, almeno negli ultimi tre decenni, che la distribuzione della ricchezza prodotta dal mercato fosse a vantaggio di pochi, così allargando a dismisura la distanza dai molti in termini di potere economico, sociale e di condizionamento politico.
Finora, nessuna politica, nazionale e sovranazionale, ha frenato questo squilibrio di potere; che anzi è stato sistematicamente alimentato con una fragile regolazione dei mercati e una diffusa fiscalità di favore per profitti e rendite. La narrazione delle forze impersonali del mercato ha giustificato la compressione della spesa sociale e ha dissimulato il fine di politiche economiche orientate agli interessi del capitale più che a quelli del lavoro. Ha insomma fatto apparire come ineluttabili i divari di ricchezza che si sono fatti inevitabilmente politici, limitando così l’effettiva rappresentatività democratica, al riparo di una democrazia formale (andare al voto) caratterizzata da elevati tassi di astensione, dovuti alla diffusa percezione di irrilevanza rispetto alle decisioni politiche. D’altra parte, il libero mercato fondato sulla concorrenza senza regole non è uno spazio inclusivo; e se la politica rinuncia a regolare il mercato e, piuttosto, lo subisce, diviene essa stessa non inclusiva, compromettendo il funzionamento del sistema democratico e l’eguaglianza delle opportunità.
Tassare i super-ricchi, in questo contesto, non servirà a nostro avviso a modificare le regole che sovrintendono ai processi di accumulazione della ricchezza; non modificherà la capacità di incidere sulle decisioni economiche e politiche; non servirà a garantire che, prima di qualsiasi imposta sulle grandi ricchezze, siano soddisfatti diritti sociali universali attraverso forme ordinarie di prelievo. Ad esempio, ponendo mano alla struttura ordinaria dei sistemi tributari; in particolare all’imposta progressiva sui redditi che – come in Italia – appare ormai desertificata, abbandonando gli anacronistici modelli di tassazione rivolti ad attenuare il prelievo sui redditi da capitale perché mobili (anche quando poi tali redditi sono di fatto immobili). Se davvero si volesse procedere in una direzione più strutturale, sarebbe opportuno eliminare i trattamenti tributari di favore e – almeno in Europa – procedere all’armonizzata reintroduzione in tassazione progressiva dei redditi da capitale.
Per queste ragioni, la proposta di tassazione dei super-ricchi non appare un rimedio risolutivo degli attuali squilibri; piuttosto, essa sembra segnalare un cambiamento affinché nulla o poco cambi. Peraltro, con il favore di coloro – emblematico l’elenco dei patriotic millionaires che sostengono la proposta – che avendo accumulato ricchezza traendo profitto da quegli squilibri, ora intendono cedere qualcosa, purché sia mantenuta intatta la supremazia del mercato rispetto agli interessi della collettività. Nel mercato, in fondo, lo Stato è solo un male necessario al suo funzionamento. Certo, tassare i super ricchi è meglio di niente, ma è quello che ogni ordinario sistema tributario dovrebbe già fare. Per dirla con Rousseau, il male più grande si è già verificato – e il contratto sociale è già violato – quando ci sono dei poveri da difendere e dei ricchi da frenare.