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Dopo le promesse elettorali due anni di melina senza passi avanti nella trattativa con la Ue: perché i balneari scioperano contro il governo

In principio erano le promesse elettorali delle destre ai concessionari balneari. “Fratelli d’Italia continuerà a dare battaglia in Parlamento e in ogni sede per difendere il futuro di migliaia di imprese e lavoratori” (Giorgia Meloni, 19 maggio 2022). “Al futuro del settore penserà il prossimo governo di centrodestra con Forza Italia come sempre dalla parte […]

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In principio erano le promesse elettorali delle destre ai concessionari balneari. “Fratelli d’Italia continuerà a dare battaglia in Parlamento e in ogni sede per difendere il futuro di migliaia di imprese e lavoratori” (Giorgia Meloni, 19 maggio 2022). “Al futuro del settore penserà il prossimo governo di centrodestra con Forza Italia come sempre dalla parte delle aziende e dei lavoratori italiani” (Maurizio Gasparri, 2 settembre 2022). “Scorretto che a 20 giorni dalle elezioni qualcuno voglia correre coi decreti attuativi della Bolkestein, siano il nuovo Parlamento e il nuovo governo a occuparsene” (Matteo Salvini, 3 settembre 2022). Avanti veloce di due anni: le associazioni di categoria Sib-Confcommercio e Fiba-Confesercenti hanno indetto per venerdì 9 agosto due ore di “sciopero dell’ombrellone contro il governo Meloni, accusato di non aver mantenuto gli impegni. Cosa è successo nel frattempo? Il tentativo di dare battaglia in Europa contro l’attuazione della direttiva sulla messa a gara delle concessioni è al momento fallito e gli slogan che avevano galvanizzato la piccola ma potente (e finora privilegiata) lobby, nonché bacino elettorale del centrodestra, si sono sciolti come neve al sole agostano.

Nel 2022, come i balneari ricordano bene, FdI è stato l’unico partito a votare contro il ddl concorrenza, che alla luce dei rilievi della Commissione e del Consiglio di Stato ha fissato per il 31 dicembre 2023 la scadenza ultima delle 23mila concessioni demaniali marittime (tra cui 7mila stabilimenti balneari tout court) disponendo che come previsto dalla Bolkestein fossero riassegnate attraverso gare entro la fine del 2024. Mettendo fine a 15 anni di proroghe automatiche. Quel ddl, entrato in vigore a fine agosto 2022, rimandava però a successivi decreti attuativi i dettagli su gare e indennizzi ai titolari uscenti. Ritenuti meritevoli di tutela nonostante paghino allo Stato canoni annui irrisori: tra 2016 e 2020 8mila euro medi all’anno a fronte di un fatturato medio, secondo Nomisma, di 260mila.

Quando Meloni si è insediata a Chigi, la categoria ha tirato un sospiro di sollievo: si aspettava che la premier avrebbe trovato il modo per evitare le aste, considerato che in Parlamento aveva sostenuto che sarebbero state vinte da “grandi multinazionali straniere” e i prezzi per la clientela sarebbero aumentati. La realtà si è dimostrata però più forte degli slogan. Il nuovo governo ha sì inserito nel suo primo decreto Milleproroghe il rinvio di un anno delle gare, ma a febbraio 2023 – mentre i vicepresidenti del Senato Maurizio Gasparri e Gian Marco Centinaio accoglievano i concessionari a Palazzo Madama – il Colle ha censurato la norma perché in contrasto sia con la normativa europea sia con la sentenza del 2021 con cui l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato aveva dichiarato inapplicabili eventuali nuove proroghe legislative del termine per la messa a gara.

Sergio Mattarella ha quindi sollecitato un nuovo intervento per “assicurare l’applicazione delle regole della concorrenza e la tutela dei diritti di tutti gli imprenditori coinvolti”. In estate, mentre i primi Comuni iniziavano ad applicare la legge sulla concorrenza e mettere a gara le concessioni, il governo ha preso ancora tempo istituendo un “sistema informativo di rilevazione delle concessioni di beni pubblici” con l’obiettivo di dimostrare che le spiagge non sono un bene scarso e di conseguenza, come sostiene il Sindacato italiano balneari, non sono soggette all’applicazione della Bolkestein.

Il tavolo interministeriale ha estratto dal cilindro una fantasiosa mappatura stando alla quale, appunto, le concessioni coprono solo una piccola quota delle coste italiane. Nel dettaglio, l’Italia sarebbe dotata della bellezza di 426mila metri quadri di demanio marittimo di cui solo 77.100 occupati: il 18%. Numeri a cui si arriva includendo nel novero dei litorali le aree industriali, militari e portuali nonché zone rocciose e montuose su cui è impensabile aprire stabilimenti. Un escamotage che Bruxelles non ha apprezzato: a novembre la Commissione Ue ha fatto sapere che la procedura di infrazione avviata nei confronti l’Italia nel 2020 per mancata applicazione della direttiva in materia aveva fatto un ulteriore passo avanti, con l’invio di un “parere motivato” a cui Roma avrebbe dovuto rispondere entro due mesi. In quel parere si bocciava la mappatura, definendo i dati “non idonei a dimostrare che su tutto il territorio italiano non vi è scarsità di risorse naturali oggetto di concessioni balneari”.

Che fare? Semplice, calciare ancora in avanti la lattina. Cosa puntualmente avvenuta a gennaio, quando il cdm ha ufficializzato la necessità di stabilire nuovi “criteri tecnici” per determinare la scarsità della risorsa naturale. Nel frattempo, gli enti locali venivano formalmente invitati a non assumere “iniziative disomogenee” – leggi le gare – con “ripercussioni negative sul sistema economico e sociale legato alle concessioni per finalità turistiche e ricreative”. Un appello in contrasto con la legge sulla concorrenza e con un nuovo pronunciamento del Consiglio di Stato del marzo 2023 sull’illegittimità delle proroghe. Così molti altri enti locali, anche governati dalla destra, hanno proceduto con la messa all’asta delle concessioni facendo infuriare le associazioni di rappresentanza di categoria. Non senza corto circuiti interni, come a Jesolo dove il presidente della branca veneta del Sindacato italiano balneari – che si batte contro le gare – ha partecipato in cordata con altri…a una gara, aggiudicandosi una porzione di arenile. E scatenando le ire del presidente nazionale.

Da allora a livello governativo null’altro si è mosso. Mercoledì, in conferenza stampa dopo l’ultimo cdm prima della pausa estiva, il ministro per gli Affari europei e il Pnrr Raffaele Fitto ha spiegato che non è stata adottata alcuna misura in materia perché “c’è un confronto in atto sul parere predisposto dalla Commissione europea che va avanti con le sue complessità“. Insomma: imporsi alla Ue non era semplice come Meloni aveva fatto intendere quando stava all’opposizione. Come dimostra quel che Matteo Salvini si è lasciato sfuggire giovedì al Versiliana festival: “Vogliamo la prelazione e gli indennizzi per i balneari. Ma occorre l’ok dell’Europa”. Appunto.

Fonti di governo hanno annunciato che un provvedimento di riordino del settore si farà, in “una delle prossime riunioni” dell’esecutivo. Ma nel frattempo potrebbe arrivare il deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia Ue. E la pazienza della categoria si è ormai esaurita: venerdì è sciopero, anzi serrata. L’adesione si preannuncia tutt’altro che oceanica: l’iniziativa delle due associazioni più blasonate, Sib e Fifa – che sollecitano la definizione di indennizzi per i concessionari uscenti, di fatto accettando le gare – non è condivisa dagli altri nove sindacati che rappresentano gli operatori delle spiagge. Assobalneari-Confindustria e Base Balneare, che rifiutano tout court la messa a bando, sono contrarie a una protesta che penalizzerebbe i consumatori. Per le forze politiche che si erano presentate come paladine dei titolari degli stabilimenti sarà comunque una débâcle.