“Vorrei che ogni giocatore fosse come Kiraly: sembra che ti mangi, ha le vene gonfie, non molla mai, ti urla in faccia, ti fa sentire che è lui il più forte”: è l’estratto di uno splendido articolo del compianto Corrado Sannucci sul nuovo ct della nazionale italiana di pallavolo, pubblicato su Repubblica il 6 aprile 1989. Il nuovo ct era Julio Velasco, all’epoca 47 anni, reduce da un quadriennio di successi al comando della Panini Modena, dove si era formato il nucleo della formidabile squadra azzurra del decennio successivo: Andrea Lucchetta, Luca Cantagalli, Lorenzo Bernardi, Fabio Vullo, Franco Bertoli. Trentacinque anni dopo, eccoci ancora qui: Julio Velasco ct dell’Italia femminile, trascinata nella finale olimpica di Parigi, avversagli gli Stati Uniti di Karch Kiraly. Quello che “non molla mai”, ha vinto tutto nella pallavolo e nel beach volley e cercherà anche stavolta, nella sfida per l’oro di domenica, di far sentire di essere sempre il più forte.

Noi, intesi come italiani, teniamoci stretto questo argentino di 72 anni, nato a La Plata, papà peruviano morto quando Julio era ancora un bambino, una mamma argentina di origine inglese che insegnava la lingua di Shakespeare, un fratello – rapito e torturato dai macellai della giunta militare – scomparso nel 2020, una vita romanzesca che dal sogno di diventare professore di liceo lo ha portato ad essere non solo uno dei coach più importanti della storia del volley, ma anche personaggio di enorme fascino e carisma. Velasco è un uomo letterario che ama la letteratura. È un allenatore errante, che ha lavorato in Europa (Spagna, Repubblica Ceca), Sud America (Argentina) e Asia, nell’Iran degli ayatollah, ma ha messo le radici in Italia. Un vincitore di successo: 13 titoli con i club e 18 con le nazionali. Un maestro di sport che ha sconfinato nel calcio, prima alla Lazio e poi all’Inter.

Un affabulatore che incanta: memorabile la lezione tenuta nell’ateneo di Bologna in cui, parlando di Maradona e d’Inghilterra, di sogni e di gestione delle risorse umane, raccontò che cosa fece quando, per la prima volta, accettò l’incarico di guidare una squadra femminile: “Contattai una mia vecchia amica argentina, conosciuta ai tempi dell’università, insegnante. Le chiesi di spiegarmi la differenza tra bambini maschi e bambine femmine. Mi spiegò che la differenza maggiore è che le bambine non vogliono sbagliare. Quando si fa una domanda, risponde sempre un maschio perché si butta, senza paura di commettere l’errore. Le bambine sono invece appagate da sapere di possedere la risposta giusta. Tradotto, ho capito che le donne vanno spinte a buttarsi, anche a costo di sbagliare. Gli uomini vanno invece frenati”.

Velasco, tornato ct dell’Italia femminile nel novembre 2023, un quarto di secolo dopo la precedente esperienza con le azzurre, non finisce mai di sorprendere. E non finisce mai di vincere o di correre per la vittoria. Subito dopo il 3-0 dell’Italia sulla Turchia in semifinale, ha detto: “Parlare di oro che manca nel volley italiano è deleterio. Prepareremo la finale contro gli Usa senza caricare troppo. L’oro è un sogno, ma intanto abbiamo già l’argento assicurato. In Italia si vede sempre quello che non va, l’erba del vicino è sempre più verde. È un modo sbagliato di vedere le cose. Godiamoci quello che abbiamo”.

Una lezione di sport e di vita di questo signore che parla un italiano dove scorrono le visioni della cultura sudamericana. Un uomo che non ha mai dimenticato gli orrori della dittatura e la povertà di un continente devastato da profondi contrasti sociali: “Ernesto Che Guevara scoprì le profonde disuguaglianze dell’America del Sud nel suo famoso viaggio in moto. Io lo compresi girando l’Argentina con le missioni religiose. Sono cose che non si dimenticano, come gli anni orribili della giunta militare”. Un oro olimpico, in fondo, che cosa è di fronte a tutto questo?

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