In un’Italia del paradosso dove i centri di accoglienza straordinaria (Cas) – gestiti dalle prefetture – sono considerati “la norma”, il circuito ordinario Sai (Sistema di Accoglienza e Integrazione, ex Sprar ed ex Sirproimi) – in capo ai Comuni – è risultato sempre il più efficace. Il motivo? La rete Sai lavora sull’integrazione e l’accesso diretto ai servizi da parte di richiedenti e rifugiati che da subito interagiscono col tessuto che li accoglie. E il risultato è un’ottima coesione sociale. Negli ultimi anni però, il sistema ordinario è stato svilito e stravolto: i finanziamenti, che provengono dal ministero dell’Interno, continuano ad essere pochi e il personale è carente. E i Cas? In quanto strutture straordinarie, nel lungo periodo non sono sostenibili e rappresentano circa il 60% dell’accoglienza.
Il circuito Sai, nonostante i mille ostacoli della burocrazia italiana, ha dimostrato di avere un grande punto di forza: la fitta rete di enti locali. “Il Sistema di Accoglienza e Integrazione è fatto per piccoli numeri e i Comuni rispondono bene”, spiega al fattoquotidiano.it Virginia Costa, responsabile del servizio centrale del Sai. Insomma, la rete ordinaria funziona. Non solo. In alcune piccole realtà, i progetti in capo alle amministrazioni locali – affiancate da società della salute, distretti sanitari e aziende sociali consortili – sono stati anche ritenuti “eccellenti” per la qualità dei servizi erogati.
E i numeri parlano chiaro. Secondo gli ultimi dati aggiornati al 30 giugno scorso, l’accoglienza diffusa conta 881 progetti (633 ordinari, 208 per minori non accompagnati, 40 per persone affette da disagio mentale o disabilità) affidati a 746 enti locali titolari di progetti attivati in 1.952 comuni per un totale di 37.947 posti attivi e 54.512 beneficiari. E le amministrazioni comunali titolari di progetti sono 653.
Nonostante i numeri siano favorevoli, la rete Sai deve combattere con i pochi finanziamenti del Viminale. Infatti, dall’ultimo Rapporto Annuale Sai, si legge che il 2023 è stato “un anno di choc organizzativi” con 14 decreti di finanziamento da parte del ministero. “Il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, lo scorso anno, non ha avuto risorse sufficienti – spiega Costa – e il sistema è stato finanziato con nuovo fondo per l’immigrazione”. Una situazione che ha creato evidenti effetti di rallentamento. Ma nonostante questo, il circuito ordinario continua a sovrastare i Cas grazie al suo impegno nella realizzazione di percorsi personalizzati per i migranti. “Per la persona accolta viene delineato un percorso ad hoc, in base alle sue esigenze, mettendo a disposizione vitto, alloggio, servizio mensa”. Non solo. “All’individuo viene riconosciuto una sorta di pocket money (piccolo importo giornaliero)”.
E non occorre spostarsi nei centri delle grandi città per vedere una rete Sai funzionare bene. Nelle Marche, il progetto “Ancona provincia d’asilo” del Comune di Jesi dimostra di essere ben radicato sul territorio. E nel maggio scorso è stato giudicato, dai funzionari del Servizio Centrale del Sai, uno dei migliori in Italia. “Il grande pregio del centro di Jesi è stato quello di essere gestito da un’azienda dei servizi alla persona (Asp), contando una grande rete di comuni e associazioni – spiega Costa -. Tanti enti locali, come quelli coinvolti nel progetto marchigiano, si traducono in un grande lavoro di coordinamento. Tutti hanno partecipato”.
Infatti, il progetto marchigiano è il primo per enti locali coinvolti (34) e terzo in Italia per numero di soggetti ospitati (circa 800), dopo Roma (2.011) e Bologna (2.110). E la qualità dell’organizzazione è testimoniata anche dalle storie dei suoi beneficiari. Come quella di Hanna, 30 anni, ucraina, “scappata dalla guerra” dopo che la sua città “è stata rasa al suolo”. Ora abita a Santa Maria Nuova insieme alla sua bambina di sei anni e sul progetto Sai ha solo ottime parole: “Non smetterò mai di ringraziare queste persone che hanno permesso a mia figlia di andare a scuola”. Oppure Nichirvan, iracheno, partito dal suo Paese per “problemi politici” con la Turchia. “Qui voglio costruirmi un futuro”. E ancora Jean Claude, ivoriano di 33 anni scappato via dal suo Paese “per problemi familiari e discriminazione”. Dopo un viaggio di 14 ore su un barcone dalla Tunisia è stato “salvato dalla guardia costiera” e dopo Lampedusa e Reggio Calabria, ora vive a Castelfidardo, ha un lavoro ed è in attesa che la sua famiglia possa raggiungerlo presto.