“Non, je ne regrette rien”: no, non rimpiango niente, dice il ritornello dell’omonima canzone composta nel 1956 da Charles Dumont con le parole di Michel Vaucaire ma diventata nota qualche anno dopo quando a cantarla fu Édith Piaf. Questa canzone è la colonna sonora di questo mio pezzo, il “Passerotto” lo cantò per la prima volta nel 1960, segno del destino, all’Olympia, tra i più storici teatri parigini.
Evocativo il luogo della prima interpretazione, ma è per me il ritornello da associare a queste Olimpiadi, soprattutto a quelle vissute dai tanti azzurri che si sono piazzati al quarto posto: Benedetta Pilato e Simona Quadarella, due volte, nel nuoto. Massimo Stano nella marcia, Alice D’Amato nella ginnastica ma si è consolata con l’oro alla trave. Alice Volpi nel fioretto, il quattro senza maschile di Nicholas Kohl, Giuseppe Vicino, Giovanni Abagnale e Matteo Lodo. Giovanni Tocci e Lorenzo Marsaglia nel sincro come Elena Bertocchi e Chiara Pellacani. Tammaro Cassandro nello skeet, Luca Braidot nel cross country, Nadia Battocletti sui 5000 con quel tragicomico saliscendi dal podio frutto del gioco dei ricorsi. Larissa Iapichino nel lungo, Domenico Acerenza nella 10 chilometri in acque libere, Riccardo Pianosi nel kite.
Altri ne potrebbero arrivare da qui alla chiusura, ma ho lasciato per ultimo quello della squadra mista di judo. Il bronzo ci è stato tolto dal Brasile nella finalina, ma è nella semifinale con i padroni di casa della Francia che ritrovo una immagine emblematica che, forse, spiega tanto del senso di un quarto posto olimpico. La montagna da scalare, Gennaro Pirelli contro Teddy Riner, è stato un Davide contro Golia eroico con il nostro atleta capace di reggere, anzi, sfiorare l’impresa contro il gigante francese.
Ecco, l’Olimpiade è il picco più alto per ogni atleta. Da raggiungere innanzitutto, non facile e per nulla scontato parteciparci. Poi serve lottare per raggiungere il podio. L’oro, l’argento e il bronzo possono avere sfumature così diverse da potervi scrivere un trattato, allo stesso modo il quarto posto, seppur con meno riverberi di splendori. Il “legno” non ha riflessi di eternità. Chi quell’ultimo gradino lo ha visto sfuggire per una bracciata, un punto, un centimetro, una stoccata, non passerà alla storia. La “medaglia di legno” fa rumore se viene accolta con gioia, fa rumore se è deludente ma è inevitabilmente destinata all’oblio silenzioso di chi, nel tempo, consultando gli almanacchi non ne troverà traccia.
Una traccia invece ci sarà sempre nel cuore, nella mente e anche, permettetemi di dirlo, nel fisico di chi ha sudato sognando una medaglia. Allenandosi e faticando come e anche più degli altri, ma il destino ha riservato loro il quarto posto. Se non si può gioirne né farne tragedia resta una sola arma all’atleta che nel profondo serberà questo ricordo. Passeggiare nella bellezza della capitale francese in veste olimpica e, la notte prima di lasciarla per sempre, arrivare sull’argine della Senna per liberarsi di un peso gettando idealmente quel pezzo di legno (non inquina) canticchiando leggeri: “Non… rien de rien, Non je ne regrette rien”.