Siamo alla fiera dell’assurdo. È venerdì 9 agosto e c’è una protesta sotto gli ombrelloni delle spiagge di mezza Italia. Sorpresa: a protestare non sono lavoratori e lavoratrici. Non sono bagnini, baristi, cassiere che durante l’estate lavorano spesso in nero o con contratti falsi, di quelli che prevedono 4 ore al giorno per 5 giorni a settimana ma poi ne lavori 12 o anche 14 e addirittura 7 giorni su 7, domeniche incluse, per paghe da fame (nei fatti 4-5-6 € l’ora), senza diritto a ferie, malattia, riposo.

Ma se non sono loro, chi è l’artefice della protesta che si è guadagnata prime pagine dei giornali, servizi su servizi ai tg? Gli imprenditori balneari!

“Sciopero dei balneari”, lo chiamano. Anche se lo sciopero è un diritto costituzionale dei lavoratori, non degli industriali. Quando sono gli imprenditori a decidere di chiudere si deve parlare di “serrata”, ma quasi nessuno lo fa. E men che meno si ricorda che la serrata fino al 1960 era un reato, articolo 502 del codice penale.

Gli imprenditori balneari protestano perché vorrebbero che il regalo delle concessioni fosse come un diamante: per sempre. Vorrebbero cioè continuare a sfruttare economicamente le nostre spiagge – perché le spiagge sono nostre, tutte di proprietà del demanio – per pochi euro all’anno. Anche se, sulla base di pronunciamenti di diverse istituzioni, a partire dal Consiglio di Stato, già oggi in realtà le concessioni sono scadute – per l’esattezza lo scorso 31 dicembre 2023 – per cui la maggior parte degli stabilimenti balneari sta occupando suolo pubblico in maniera abusiva.

Temendo che oggi la loro battaglia possa essere persa, questi imprenditori alzano la voce e abbaiano per rivendicare almeno il pagamento di un indennizzo, nel caso in cui effettivamente le concessioni andassero a gara – come previsto dalla direttiva Bolkenstein – e dovessero passare di mano.

A lagnarsi è ad esempio Massimo Casanova, proprietario del Papeete ed ex europarlamentare della Lega. Per la concessione a Milano Marittima (Ra) paga la “bellezza” di 5.844,52 € all’anno. Che, al mese, fanno meno di 500 €. Meno cioè di quanto uno studente o un lavoratore sono costretti a pagare una stanza (non una casa!) nelle nostre città metropolitane (confrontate con gli affitti di Milano, se siete come San Tommaso). Il Papeete nel 2023 ha fatturato 3 milioni di euro, per un utile dichiarato di 43mila euro. La concessione pesa quindi per lo 0,33 del fatturato. Ancora più bassa l’incidenza per il Twiga di Pietrasanta (Lu): 22.905,65 € su un fatturato 2023 pari a 8,2 milioni di euro (636mila euro di utile), lo 0,29%.

Praticamente nulla quella per l’Augustus Beach Club di Forte dei Marmi (Lu): 0,16%, frutto di un fatturato di 12 milioni (un milione di euro di utili) a fronte di una concessione di 18.500 € annui.

Ci sono altri due nodi interessanti in relazione agli imprenditori balneari.

Sono gli stessi che, stando agli ISA (Indici Sintetici di Affidabilità fiscale), sono considerati fiscalmente inaffidabili nel 60% dei casi. Sui 5.351 contribuenti balneari stimati dagli ISA, infatti, il 60% (2.974) ha un voto inferiore all’8. Un voto che indica che dietro le dichiarazioni di ricavi medi di 187mila euro e di un profitto medio di 14mila euro all’anno potrebbero in realtà esserci ben altre cifre. Accuratamente nascoste al fisco.

L’infedeltà fiscale non è l’unica caratteristica di troppi di questi imprenditori. L’altro nodo ha a che fare con i dipendenti. Stando al rapporto dell’aprile 2024 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), infatti, le imprese del turismo e della ristorazione fanno registrare percentuali altissime di irregolarità: 71,2% al Nord, 79,6% al Centro e 78,9% al Sud (per una media nazionale del 77,3%). Ai controlli su contratti, contributi e sicurezza sul lavoro, cioè, risultano irregolari quasi 8 aziende su 10.

Eppure, nonostante il decennale regalo di Stato delle concessioni, l’alto tasso di infedeltà fiscale e quello abnorme di irregolarità che impongono ai dipendenti, questa piccola cricca di privilegiati ottiene incredibili appoggi politici e un trattamento mediatico di assoluto favore.

La protesta del 9 agosto ha non a caso un obiettivo “comunicativo”: che il potere mediatico la riprenda così da funzionare da arma di pressione su un esecutivo sempre prodigo di promesse, che forse oggi si prepara a disattendere, per questi soggetti. Il potere mediatico si presta volentieri. Malgrado la protesta sia una farsa: è andata in scena per sole due ore, dalle 7:30 alle 9:30 del mattino, quando cioè le spiagge sono quasi vuote. Una buffonata che però ottiene una visibilità estrema. Non proprio lo stesso trattamento che ricevono lavoratori e lavoratrici quando protestano: qualcuno ha letto titoli o visto servizi tv sulla giornata nazionale di protesta a Rimini dello scorso 6 luglio convocata dall’Unione Sindacale di Base (USB) per denunciare le condizioni schiavistiche che soffrono i dipendenti del settore? Eppure, se è vero che non è stata di massa, poneva sul tavolo problemi e contraddizioni che interessano decine e decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici.

Potere mediatico e potere politico, ancora una volta, si mostrano perfettamente allineati col potere economico. Nell’interesse di questa piccola ma influente lobby. Ciò che serve, al contrario, è scrivere e legiferare nell’interesse della maggioranza. Quella di lavoratori e lavoratrici che hanno bisogno di paghe dignitose e contratti regolari. E quella di cittadine e cittadini che sono stanchi di non poter spesso nemmeno accedere alla battigia a causa degli abusi degli imprenditori balneari.

Le spiagge – già oggi pubbliche – tornino a essere gestite dal pubblico, come rivendica ad esempio Mare Libero. È quanto accade già oggi in altri Paesi europei. Basta andare a fare un bagno in Grecia o in Francia per trovare le differenze. Lavoro dignitoso e spiagge in mani pubbliche. Si può fare. Serve solo la volontà politica.

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