La medaglia d’oro non sembrava ossessionarlo: “È un sogno, ma intanto abbiamo già l’argento assicurato. In Italia si vede sempre quello che non va, l’erba del vicino è sempre più verde. È un modo sbagliato di vedere le cose. Godiamoci quello che abbiamo”. A questo punto è probabile che quella di Julio Velasco fosse solo pretattica, un modo per non appesantire la mente delle sue ragazze, alla vigilia della finale olimpica contro gli Stati Uniti. Ennesima mossa azzeccata quella del coach di La Plata, che ha portato l’Italvolley a dominare anche nell’ultima partita dei Giochi di Parigi. “Ancora ci dobbiamo rendere conto di quello che abbiamo fatto. È stata un’Olimpiade straordinaria, abbiamo perso un solo set, credo sia un record”.

Le origini – Solo l’ultimo traguardo di Velasco, che ha confermato ancora una volta non solo di essere tra gli allenatori più importanti della storia del Volley, ma anche un personaggio di culto, dotato di fascino e carisma. Affabulatore straordinario, psicologo e uomo da romanzo, Velasco nasce sul Rio de La Plata nel 1952, nell’Argentina di Juan Domingo Peron. Suo padre è un agronomo peruviano che se ne andrà per una pancreatite quando il piccolo Julio ha soltanto sei anni, la madre, invece, è di origine inglese e vive insegnando agli argentini la lingua di Shakespeare: a quelle latitutidini non è certo uno degli idiomi più amati. Ha due fratelli: Luis e Raul. Con loro cresce in un Paese che cambia volto velocemente e in maniera radicale, fino al colpo di Stato del generale Jorge Videla. Velasco lascia l’università di La Plata a sei esami dalla laurea in Filosofia per trasferirsi a Buenos Aires, dove – a detta sua – era “più facile passare inosservati”.

Il fratello rapito – Non farsi notare per Velasco è fondamentale: ex militante comunista e presidente del comitato studentesco, presto vede “svanire” alcuni dei suoi amici. È la repressione della giunta militare di Videla e dell’ammiraglio Eduardo Massera: gli squadroni della morte rastrellano gli studenti e gli attivisti considerati oppositori del regime, li concentrano in posti come l’Esma, la Scuola di meccanica della marina militare, li torturano, poi li mettono su un aereo e li lanciano nel’oceano. Sono circa trentamila i desparecidos che non torneranno mai a casa: uno degli orrori più disumani della storia recente. Tra le prede degli squadroni della morte c’è anche Luis Velasco, rapito per due mesi e poi liberato dopo essere stato seviziato. “Quando le forze militari entravano in casa – ricordava Velasco, un paio di anni fa, ti chiamavano per cognome e ti portavano via; per questo motivo non saprò mai se il bersaglio fossi stato io, che ero un militante dell’Università, o Luis”. Durante le torture, raccontano che a Luis si avvicinò un prete. Lui riuscì a dirgli: “Padre come si sente a partecipare a questa schifezza?”Il prete se ne andò, Luis fu rilasciato qualche tempo dopo. “Fu qualcosa di così spaventoso dal punto di vista umano e morale che in realtà mai in famiglia abbiamo superato”.

L’arrivo in Italia – È da qui che viene Julio Velasco, dal buco nero della dittatura argentina. Ed è in quegli anni che comincia ad allenare: con il Ferro Carril Oeste, la squadra del barrio Caballito, a Buenos Aires, vince quattro campionati, diventa vice allenatore della nazionale, medaglia di bronzo ai mondiali del 1982, giocati in casa. Nel 1983, quando in Argentina sta per tornare la democrazia, si trasferisce in Italia: lo ingaggia la squadra di Jesi, neopromossa in A2. A fare il suo nome sono alcuni giocatori argentini che aveva allenato in nazionale. I marchigiani sfioreranno la A1, dove Velasco arriva comunque due anni dopo con la Panini Modena: è il 1985 e la storia della pallavolo sta per cambiare. Non solo in Italia, dove Velasco costruisce il nucleo della cosiddetta generazione di fenomeni: Andrea Lucchetta, Luca Cantagalli, Lorenzo Bernardi, Fabio Vullo, Franco Bertoli.

Il palmares – Da lì comincia una parabola infinita. Velasco vince di tutto e ovunque: allena in Europa (Spagna e Repubblica Ceca), si spinge fino all’Iran, torna anche a casa per guidare l’Argentina. Colleziona ori ai quattro angoli del globo: 13 titoli di club, 18 con le nazionali. Arriva persino a lavorare nel calcio: è stato direttore generale della Lazio di Sergio Cragnotti e poi responsabile dell’area fisico-atletica all’Inter di Massimo Moratti, con Marcello Lippi in panchina. Una carriera perfetta con un vuoto in bacheca: l’oro olimpico. Nel 1996, ad Atlanta, con la nazionale maschile si era fermato all’argento, sconfitto in finale dagli olandesi. “Chi vince festeggia, chi perde spiega”, è uno dei tanti aforismi del coach de La Plata. Oggi non ha nulla da spiegare.

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