L’11 agosto di 42 anni fa, a Palermo, Cosa nostra assassinava un galantuomo siciliano: il professore Paolo Giaccone, dirigente dell’Istituto di medicina legale del Policlinico di Palermo: era anche consulente del palazzo di giustizia. Il dr Giaccone si rifiutò, nonostante le minacce, di modificare la perizia di un’impronta rinvenuta su un’autovettura usata dai killer per compiere una strage. Fulgido esempio di un uomo retto che non volle piegarsi ai voleri di Cosa nostra.

Era il giorno di Natale 1981. Quel giorno aspettavo di festeggiare insieme alla mia famiglia. La giornata era luminosissima, e io dal mio terrazzo di casa estasiato ammiravo il mare e la bellezza della Conca d’Oro: il mio sguardo terminava su Monte Pellegrino. Ad un tratto, sentii la sirena di una volante e subito dopo altre ancora che si dirigevano verso Bagheria. Chiamai il mio ufficio e mi dissero che era stata segnalata una sparatoria tra le vie di Bagheria. Poi, seppi che i killer per uccidere Giovanni Di Peri, capo famiglia di Villabate, inseguirono la sua auto sparando all’impazzata. Morì, colpito dagli spari, il pensionato Onofrio Valvola, che era seduto davanti l’uscio di casa. Oltre a Giovanni Di Peri, fu ucciso Biagio Pitarresi. Il cruento episodio fu codificato come “La strage di Natale”.

Io conoscevo sin da ragazzo i due: così come conoscevo benissimo il figlio di Di Peri, Totuccio. Giova dire che Giovanni Di Peri era rimasto illeso nell’attentato con l’utilizzo di un’autobomba fatta esplodere nella notte del 30 giugno 1963 da Cosa nostra, innanzi la sua autorimessa di Villabate. Purtroppo, morirono due innocenti: il custode dell’autorimessa, Pietro Cannizzaro e il fornaio Giuseppe Tesauro. La mattina, sempre del 30 giugno, a Ciaculli, con l’esplosione di una Giulietta imbottita di esplosivo, morirono 4 carabinieri, 2 militari e un sottufficiale di polizia.

Qualche mese dopo la strage di Natale, la pattuglia di una volante ferma per un controllo Giuseppe Marchese, rampollo di una nota famiglia mafiosa di Palermo. Lo zio Filippo, soprannominato “milinciana”, era il factotum della famosa “camera della morte” di Sant’Erasmo. Della camera degli orrori Vincenzo Sinagra ci raccontò dettagli raccapriccianti (ricordo nitidamente il giorno che arrestammo Sinagra, insieme ai suoi due cugini chiamati “tempesta e mangia cristiani”: tutti colti il flagranza nell’omicidio di un giovane, che aveva osato offendere in pubblico i “tempesta”). Il fratello di Giuseppe, Nino, era un pericoloso killer di Cosa nostra. Gli uomini della volante, quindi, arrestano il Marchese, per porto abusivo d’arma da fuoco e condotto alla Mobile, dove lo incontro per la prima volta. Per dovere di cronaca, occorre dire che Giuseppe Marchese è cognato di Leoluca Bagarella, e che lo stesso Bagarella è cognato di Totò Riina.

E mentre il Marchese si trovava nei nostri uffici, una telefonata anonima al 113 attribuiva al Marchese la partecipazione alla strage di Natale. Le impronte rilevate sull’auto utilizzata per la strage furono mandate al professore Paolo Giaccone, per confrontarle con quelle del Marchese. L’11 agosto ’82, mentre ero in servizio e trovandomi nelle vicinanze, mi recai nel luogo dov’era stata segnalata una sparatoria: quel periodo le sparatorie erano la norma a causa dei tantissimi omicidi voluti da Totò Riina. Giunsi sul posto e vidi il professor Giaccone esanime e crivellato da corpi da arma da fuoco.

Giuseppe Marchese fu condannato all’ergastolo, così come il killer che uccise Giaccone, Salvatore Rotolo, poi arrestato: io e Beppe Montana c’eravamo nascosti in un anonimo furgone, e quando vedemmo Rotolo entrare in un bar lo segnalammo ai colleghi, che lo catturarono insieme ad un altro latitante mafioso. Dopo una decina d’anni dall’omicidio di Giaccone, mentre ero in servizio alla Dia di Roma, Giuseppe Marchese decide di pentirsi. Poiché conoscevo a menadito il mondo dove il Marchese era cresciuto, la Dia m’incarica come Caronte di traghettare Marchese nel suo nuovo mondo di collaboratore di giustizia: lo nascondo utilizzando alcuni anonimi appartamenti di Roma.

L’esemplare comportamento del professore Paolo Giaccone mi permette d’affermare che sono tanti e tanti i siciliani onesti che come lui si sacrificarono per il bene della nostra amata Sicilia. Ci dimostrò che si può e si deve dare seguito ai dettami della Costituzione, ovvero agire con “onore e disciplina”, altro che finanziare Cosa nostra come fece mister B, a cui hanno persino intitolato un aeroporto. Il che è tutto dire.

Altresì, suggerisco ai tanti di far tesoro de Il Piacere dell’onestà del mio corregionale Luigi Pirandello e chissà che non la smettano di comportarsi da disonesti. Di sicuro, il professor Paolo Giaccone rappresenta l’onestà vera e pura: tutti noi dovremmo seguire il suo esempio.

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