di Jakub Stanislaw Golebiewski

Essere italiano con un cognome straniero, sembra un codice fiscale, è come vivere in un costante gioco di specchi, dove l’immagine riflessa appare sempre leggermente distorta. Questa realtà, che ho vissuto sulla mia pelle fin dall’infanzia, mi ha portato a riflettere sulla complessità dell’identità e sul peso delle apparenze in un Paese come l’Italia.

Anche oggi, a cinquant’anni suonati, ricordo la curiosità, talvolta mista a diffidenza, con cui i miei compagni di classe mi guardavano. Domande come “Parli e comprendi l’italiano?”, oppure “Ma da dove vieni davvero?” o “Qual è il tuo nome italiano?” erano frequenti. Mi sentivo costantemente obbligato a dimostrare la mia italianità, a spiegare e giustificare, cercando di accentuare un’inflessione romana che spesso non bastava a convincere gli altri. Col tempo, ho imparato a portare questo fardello con più leggerezza, ma non sono mai riuscito a scrollarmelo di dosso completamente.

Le recenti dichiarazioni del generale Vannacci hanno riacceso il dibattito sull’identità nazionale e sulla diversità, risvegliando in me quelle antiche paure e insicurezze. Le parole del generale Vannacci espresse nel suo libro o durante qualche intervista televisiva hanno risvegliato paure e pregiudizi sopiti, alimentando un dibattito polarizzato sull’identità nazionale.

La sua visione di un’Italia omogenea e chiusa all’altro è in netto contrasto con la realtà di un Paese multiculturale che, nel corso dei secoli, ha accolto e assimilato popoli provenienti da ogni parte del mondo. Basti pensare alla storia dei Longobardi, degli Arabi o degli Ebrei, che hanno lasciato un segno indelebile nella nostra cultura e nel nostro patrimonio genetico. Caro Vannacci, la diversità non è una minaccia, ma una ricchezza che ci arricchisce di nuove sfumature e influenze e ci rende unici nel panorama internazionale.

Il mio cognome (e anche il nome) straniero non mi rendono meno italiano. Al contrario, mi sento una ricchezza condivisa, un ponte verso altre culture e tradizioni, un simbolo della complessità della nostra identità, che va oltre i confini nazionali. Parlare di questo con chi si chiude a riccio sull’idea di un’italianità limitata solo a certi tratti somatici, ritenuti gli unici degni di rappresentarci in Europa, è come mostrare un arcobaleno a un daltonico.

Ci sono stati momenti in cui ho provato un profondo senso di inadeguatezza, desiderando ardentemente conformarmi agli stereotipi di una ‘normalità italiana’, come li dipinge Vannacci. Tuttavia, ho gradualmente imparato ad abbracciare la mia diversità, riconoscendola come una parte autentica di me stesso. Ho compreso che l’identità è un viaggio continuo, in costante trasformazione.

La vera sfida odierna è costruire una società veramente inclusiva, dove ciascuno possa esprimere liberamente la propria identità senza temere il giudizio. In un contesto del genere, la diversità non è una minaccia, ma una risorsa preziosa per la crescita e l’arricchimento collettivo. L’esempio recentissimo più emblematico di questa ricchezza è la nostra nazionale femminile di pallavolo che ha trionfato alle Olimpiadi di Parigi contro gli Stati Uniti, dimostrando come le ‘diversità’ di Egonu, Sylla, Omoruyi, Fahr e Antropova non solo possano essere un valore aggiunto, ma anche un fattore di coesione e successo comune.

La vita mi ha insegnato che l’identità è un mosaico composto da tessere di forme e colori diversi, e che la bellezza di questo mosaico risiede nella sua varietà. Tuttavia, troppe volte le differenze vengono percepite come una minaccia, alimentando pregiudizi e innalzando barriere che dividono piuttosto che unire. È fondamentale superare queste visioni ristrette e riconoscere che le differenze non devono essere temute, ma celebrate.

Invito ciascuno di noi, compreso Vannacci e la sua schiera di italici doc, a guardare oltre le apparenze, a superare i propri pregiudizi e ad aprire il cuore all’altro. Solo così potremo costruire un futuro migliore per noi stessi e per le generazioni a venire.

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