Undici giorni. Tanto è durato Mohammad Javad Zarif nel costituendo governo di Teheran. Il neo-presidente riformista Massoud Pezeskhian lo aveva nominato vicepresidente nel giorno del suo insediamento, poche ore prima che il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, venisse ucciso in un compound dei pasdaran nella capitale iraniana. Oggi l’uomo che nelle vesti di ministro degli Esteri trattò per la Repubblica islamica l’accordo sul nucleare firmato nel 2015 con l’amministrazione Obama e il cosiddetto gruppo “5+1” si è dimesso.
La motivazione ufficiale riguarda la composizione del governo. “Non sono soddisfatto del mio lavoro e mi rammarico di non essere stato in grado di soddisfare le aspettative e attuare adeguatamente i pareri degli esperti dei comitati o mantenere le promesse fatte riguardo all’inclusione di donne, giovani e gruppi etnici“, ha scritto su X e Instagram, lasciando intendere che alla base della sua decisione ci sarebbe la scelta dei ministri fatta da Pezeshkian per il nuovo gabinetto. Nominato vicepresidente per gli affari strategici e capo del Consiglio direttivo responsabile della selezione dei candidati per vari ministeri e dipartimenti governativi, con il suo passo indietro Zarif ha fatto capire che almeno 7 dei 19 ministri nominati non corrispondevano alla sua prima scelta, suggerendo che le decisioni finali sulle nomine non sono allineate con le raccomandazioni del Consiglio. I 19 candidati presentati al Parlamento saranno esaminati dalle commissioni deputate prima del voto di fiducia, previsto per il 17 agosto.
L’elenco stilato da Pezeskhian ha suscitato critiche da parte di alcuni nel campo riformista anche per l’inclusione di conservatori del governo del defunto presidente Ebrahim Raisi. Secondo Iran International, 11 dei ministri proposti da Pezeshkian hanno precedentemente prestato servizio nelle amministrazioni di Raisi e del suo predecessore Hassan Rouhani. Un “riciclo” di personaggi politici che molti hanno criticato come una continuazione delle stesse politiche che hanno condotto l’Iran all’attuale stato di crisi economica e sociale. “Una decina di ministri sono stati imposti dai principalisti, quindi Zarif non ha accettato le nomine”, spiega Nima Baheli, analista geopolitico e di intelligence, già funzionario superiore alla Presidenza del Consiglio.
Ma la decisione potrebbe avere a che fare con il compito che Pezeskhian aveva affidato a Zarif: quello di ricucire i rapporti con l’Occidente e tentare di alleggerire le sanzioni che da anni asfissiano l’economia del paese. Non è un caso che il passo indietro arrivi in un momento delicatissimo per il Paese. Teheran ha promesso una risposta esemplare dopo l’uccisione di Haniyeh e questo potrebbe aver inciso sulla decisione: “Zarif sa che la ritorsione potrebbe inasprire i rapporti con l’Occidente rendere molto più difficile il suo compito”, prosegue Baheli. “Ai delegati iraniani incontrati la scorsa settimana prima in Turchia e a Teheran gli Usa avevano promesso un alleggerimento delle sanzioni se la risposta iraniana sarebbe stata contenuta. Questa certezza tuttavia Zarif non può averla perché la decisione verrà presa a un livello più alto rispetto a quello dello stesso Pezeskhian. E’ probabile che di fronte a questa incertezza Zarif abbia preferito dimettersi. C’è un episodio molto istruttivo a riguardo. Quando era ministro degli Esteri e Vladimir Putin andò in Iran e incontrò prima Qasem Soulemani – capo della brigata Niru-ye Qods ucciso dagli Stati Uniti nel 2020 – e soltanto poi lui, Zarif minacciò le dimissioni. Ora è come se dicesse ‘se dovrò essere attaccato da destra e sinistra perché rischio di non riuscire a fare quello per cui sono stato chiamato, allora preferisco tornare a fare il professore'”. Una lettura che pare confermata dalle parole affidate dallo stesso Zarif a Instagram: il gesto, ha scritto, non è “un segno di rammarico o delusione nei confronti del caro dottor Pezeshkian o di opposizione al realismo. Piuttosto significa dubitare della mia utilità come vicepresidente per gli affari strategici”.
Per Baheli è indicativa anche la tempistica del passo indietro: “Da molte parti è stata ventilata l’ipotesi che l’attacco possa arrivare già questa notte in occasione del Tisha B’av, anniversario della distruzione del Secondo tempio – spiega l’analista -. Non dimentichiamo per i simboli sono importanti sia per l’Iran che per Israele. In quest’ottica quello di Zarif potrebbe configurarsi come un tentativo di provare a bloccare l’attacco in extremis o una mossa per smarcarsi dalla decisione”.
Zarif, ministro degli Esteri tra il 2013 e il 2021 nel governo Rouhani, è diventato noto sulla scena internazionale durante le lunghe negoziazioni per l’accordo sul nucleare iraniano firmato nel 2015 con i paesi del cosiddetto gruppo “5+1”, i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Russia, Cina), noto come “Piano d’azione congiunto globale”. L’intesa naufragò tre anni dopo, quando l’allora presidente Donald Trump ritirò l’impegno di Washngton e reimpose una lunga serie di sanzioni alla Repubblica islamica. Ma il lavoro svolto guadagnò a Zarif una credibilità internazionale risultata determinante nella scelta di Pezeskhian, che gli aveva affidato il compito “di supervisionare i principali sviluppi nazionali e internazionali e di valutare fino a che punto riusciamo a raggiungere gli obiettivi della Costituzione”, come aveva scritto nella lettera di nomina.
Il ritiro di Zarif è la seconda crisi per Pezeshkian da quando ha assunto l’incarico a fine luglio, dopo l’uccisione di Haniyeh. Braccio destro di Pezeshkian durante la campagna elettorale per le presidenziali, grazie alla sua popolarità Zarif ha giocato un ruolo chiave nella vittoria del neo-presidente. Che ora si trova a gestire la difficile partita della risposta annunciata da Teheran a Israele dopo l’omicidio del leader politico di Hamas.