Dalla maestosa bellezza delle Pale di San Martino lo sguardo corre più giù: il verde scuro dei boschi di abete rosso lascia lo spazio a enormi macchie color ruggine. Siamo in una delle foreste più prestigiose d’Italia, quella di Paneveggio, chiamata “foresta dei violini” perché qui Antonio Stradivari sceglieva personalmente il legno – che ha caratteristiche uniche – per produrre i propri strumenti musicali. Quelle macchie – abeti morenti, senza più aghi, destinati a schiantarsi al suolo – si sono diffuse tanto nella foresta di Paneveggio quanto, soprattutto, lungo le nostre Alpi centrali e orientali: un susseguirsi, senza soluzione di continuità, di peccete “malate”. Il responsabile della loro distruzione è un insettino che arriva a malapena a cinque millimetri di lunghezza. Si chiama, in gergo tecnico, ips typographus e fa parte della famiglia dei coleotteri. Nel linguaggio comune è il bostrico. Ed è destinato a fare danni esponenzialmente maggiori della tempesta Vaia.
Da Vaia all’epidemia: un epilogo sorprendente – Le scene spaventose della tempesta extratropicale Vaia sono entrate nell’immaginario collettivo. Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del 2018, Vaia si abbatté sulle montagne dell’Italia Nord-orientale. E nel giro di pochi giorni buttò giù 40mila ettari di bosco. Prevalentemente, abete rosso, l’albero più diffuso sulle Alpi – per via della gestione selvicolturale, in particolar modo del XIX e della prima parte del XX secolo, finalizzata alla produzione del legname – e nel nostro Paese secondo solo al faggio. Gli ultimi dati a disposizione, fermi al 2023, dicono che il bostrico ha già mangiato 34mila ettari di peccete, cioè circa sette milioni di metri cubi di legname. Che in termini economici (al ribasso, visto che il legno attaccato dal bostrico viene venduto a un prezzo minore rispetto a quello normale) significa 224 milioni di euro di perdite. C’è un problema: l’epidemia di bostrico è ben lontana dall’esaurirsi. Tanto che secondo uno dei maggiori esperti, l’entomologo e professore dell’Università di Padova, Massimo Faccoli, “la guerra contro questo insetto è persa. Nel giro di qualche decina d’anni la maggior parte dei nostri boschi di abete rosso, sotto i mille metri di quota, è destinata a scomparire“.
Crisi climatica: un cane che si morde la coda – Sgomberiamo il campo da tre false credenze. Il bostrico non viene “da fuori” – non lo ha importato nessuno – ma è una specie autoctona delle Alpi, attacca solo ed esclusivamente gli abeti rossi e non è “cattivo”; nel senso che, nell’equilibrio complessivo degli ecosistemi, ha una sua utilità: consumando gli alberi già malati, li mette a disposizione di altri insetti, contribuendo al ciclo naturale della rinnovazione dei boschi e della fauna che li abita. Ciò che però non va bene è che da endemico diventi epidemico. “Dopo Vaia, le popolazioni di bostrico sono cresciute in modo esponenziale – spiega Faccoli – Prima hanno attaccato gli alberi abbattuti dalla tempesta, poi quelli in piedi, già indeboliti. Le infestazioni in genere presentano una ciclicità, che arriva a un culmine a cui segue un calo progressivo e fisiologico, fino a un rientro naturale delle infestazioni, anche perché esistono popolazioni di nemici naturali del bostrico che, sebbene con ritardo, crescono assieme alla loro preda riducendone i contingenti. Tutto ciò si risolve in una sorta di ciclo nel giro di quattro-cinque anni“. A meno che non subentrino fattori di indebolimento delle piante. “Ed è esattamente ciò a cui stiamo assistendo – continua Faccoli – nel 2024 ci aspettavamo una progressiva diminuzione delle infestazioni. Cosa che, invece, non si è verificata a causa della siccità del 2022 e delle altissime temperature del 2023. Tutti fattori che rendono l’abete rosso, pianta nordica tipica di climi freschi e umidi, più fragile e suscettibile agli attacchi da bostrico”.
Ciò che si sta verificando va nella direzione opposta: andamenti climatici sempre più sfavorevoli ai nostri abeti rossi – molto spesso coevi perché impiantati 80-100 anni fa e già piuttosto “anziani” – e sempre più ideali per il bostrico. “Maggiore è la temperatura in primavera – dice Faccoli – e prima il nostro coleottero inizia a volare. Maggiore è la temperatura in inverno e minore è la sua mortalità. Fino a pochi anni fa, per esempio, il bostrico era in grado di produrre due generazioni sotto la quota dei 1.400 metri e una sola al di sopra di tale linea. Ora sotto i mille metri avvia comunemente una terza generazione, aumentando in maniera esponenziale i danni che arreca”. A ben guardare, è un cane che si morde la coda: la tempesta Vaia – evento estremo legato ai cambiamenti climatici – è la miccia che innesca l’attività del bostrico su larga scala. La siccità e le alte temperature – legate, ancora una volta, ai cambiamenti climatici – ne continuano a garantire la proliferazione.
Boschi misti e perdità d’identità – Contro il bostrico l’uomo può fare pochissimo, soprattutto di fronte a infestazioni estese come quella italiana. Ciò su cui si può agire è la prevenzione. E l’opera più efficace, in tal senso, è la trasformazione delle peccete in boschi misti. In parole semplici: superare la monocoltura dell’abete rosso. Chi si occupa di questo specifico argomento è il dottore forestale e divulgatore scientifico Luigi Torreggiani, che insieme all’antropologo e giornalista Pietro Lacasella ha scritto un libro sul bostrico dal titolo Sottocorteccia – Un viaggio tra i boschi che cambiano (People). “Si fa presto anche a dire ‘superiamo la monocoltura’ – dice Torreggiani – Molto più difficile è farlo realmente. La fragilità dei boschi monospecifici e coetanei di abete rosso è evidente in Italia da decenni, da ben prima della terribile notte di Vaia. I gestori forestali italiani hanno già intrapreso con lungimiranza, dalla seconda metà del Novecento, una strada diversa, inevitabilmente lenta, come lo sono le dinamiche evolutive di una foresta. Oggi occorre iniziare a guidare il futuro dei boschi alpini con ancora più forza e coraggio, attraverso nuove sensibilità, necessità e idee, per traghettarli verso forme più stabili e resilienti, ma ancora capaci di generare servizi ecosistemici ed economia”.
Già, servizi ecosistemici ed economia. I boschi sono cresciuti a dismisura in Italia negli ultimi cent’anni (a causa dello spopolamento delle aree interne e dell’abbandono di certi lavori tradizionali) e i loro “prodotti” sono ovunque: dal legno che arreda le nostre case, all’acqua potabile, fino all’aria che respiriamo. Ma sono anche paesaggi, bellezza, storia e turismo. In questo senso “lo spaesamento causato da rapide trasformazioni paesaggistiche è una sensazione sgradevole – riflette Lacasella – tuttavia normale se consideriamo il processo di attribuzione di significato-significati che l’uomo solitamente conferisce al paesaggio e agli elementi che lo compongono. Così, quando scompaiono o si trasformano, si innesta un meccanismo emotivo in parte simile a quello del lutto, perché con quegli elementi si era creato un legame sentimentale; perché quei puntini riferimento ci servivano per orientarci nella complessità del mondo. Con la loro scomparsa se ne va anche una parte della nostra identità“.
E se è vero che le amministrazioni di Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia coinvolte dal bostrico hanno già iniziato a mettere in campo una serie di misure per fronteggiare il problema – dalla diversa gestione selvicolturale dei boschi, alle tecniche di scortecciatura al ricorso delle trappole a feromoni – è altrettanto vero, per il professor Faccoli, che nel lungo periodo si potrà fare pochissimo per le peccete, soprattutto quelle sotto i 1.200 metri di altitudine: “Col tempo la frequenza e l’intensità di eventi climatici estremi, siccità e bolle di calore continueranno ad aumentare. E i boschi di abete rosso di bassa quota, spesso abbandonati o mal gestiti, sono destinati a scomparire. Potrà essere un’opportunità? Dal mio punto di vista sì, perché abbiamo la possibilità di andare verso boschi che meglio si adattano alle mutate condizioni climatiche e che sostituiranno formazioni che non hanno più futuro”.