Neanche il tempo di archiviare i Giochi che uno straordinario risultato sportivo è già diventato motivo di rivendicazione politica. Sulle proporzioni del successo pochi dubbi, ma ora il presidente del Coni vuole usare le medaglie di Parigi per rimanere in sella, nonostante sia a fine ciclo a causa di una legge che lui stesso aveva salutato con favore (perché gli concedeva un terzo mandato)
Come si fa a mandare a casa un presidente da 40 medaglie e 12 ori? Giovanni Malagò reclama il quarto mandato agitando il simulacro del trionfo alle Olimpiadi di Parigi 2024, le ultime da presidente del Coni, almeno in teoria. Era prevedibile . Neanche il tempo di archiviare i Giochi e uno straordinario risultato sportivo è già diventato motivo di rivendicazione politica. Sulle proporzioni del successo pochi dubbi: eguagliato il record di Tokyo che giusto tre anni fa sembrava irripetibile, ma con più ori. In molti si sono già affrettati a definirle le Olimpiadi migliori di sempre. Parigi 2024 è stata straordinaria soprattutto per la profondità della spedizione italiana. Una squadra che è andata a medaglia in ben 19 discipline su 32 presenti in calendario. Che sale sul podio ormai da 37 giorni consecutivi, attraversando tre edizioni differenti. E tutto questo senza considerare i 25 quarti posti (record assoluto) e i mancati successi per ragioni diverse di quasi tutti gli atleti più attesi (Tamberi, Sinner, Fabbri, Marini, Testa, Dell’Aquila, solo per citarne alcuni), compensati ampiamenti da tanti altri exploit, che lungi dall’essere una delusione non sono altro che una conferma dell’estrema competitività e completezza del nostro movimento. Un’autentica potenza che, nelle sue dimensioni, ha pochi eguali nel mondo.
L’Italia dello sport funziona, molto più di quasi tutti gli altri settori del nostro Paese. E Giovanni Malagò, piaccia o meno, ne è lo storico capo. Un leader estremamente divisivo, ma con un appeal mediatico unico e riconosciuto dal suo movimento. È arrivato alla fine del ciclo ma di farsi da parte non ne vuol sapere. In realtà non è il governo che lo sta accompagnando alla porta, ma una legge in vigore dal 2018, che lui stesso aveva salutato con favore all’epoca quando gli ha concesso un terzo mandato, ma che ora che gli si ritorce contro disconosce. Il discorso però è tutt’altro che chiuso, come si capisce dalle continue stoccate con Abodi: “Dalle poltrone ci si deve anche alzare”, ha confermato di recente il ministro. “Fuori luogo”, la replica . Lui continua a sperare, spingere, brigare per una proroga. E lo ha ribadito anche nel discorso di chiusura di Casa Italia a Parigi: la scusa adesso non è più la parità di trattamento con i colleghi presidenti federali (per cui il Parlamento ha cancellato il limite), ma gli imminenti Giochi invernali di Milano-Cortina, che inizierebbero a febbraio 2026, pochi mesi dopo l’insediamento del nuovo presidente. Le medaglie di Parigi possono spostare l’equilibrio? Difficile. Certo è che (almeno) i risultati sono dalla sua parte.
Ciò che Malagò si guarda bene invece da ricordare, ma che non è sfuggito all’occhio attento dei suoi detrattori, è l’atteggiamento che ha tenuto durante questi Giochi. Prontissimo a salire sul carro vincente degli azzurri, sempre il primo a parlare dopo le vittorie più iconiche, l’oro a squadra nella scherma femminile, quello storico dell’Italvolley. Un po’ meno presente, forse, quando davvero ci sarebbe stato bisogno di lui, ovvero nei tanti momenti di difficoltà di un’edizione indimenticabile sul piano sportivo, ma disastrosa su quello politico, arbitrale e organizzativo. Dove l’Italia ha spesso pagato dazio.
Il caso più eclatante è quello del Settebello, derubato nei quarti di finale per un torto scandaloso e riconosciuto. Non solo lì Malagò non ha detto una parola, ma ha addirittura condannato la protesta della nostra nazionale, eclatante ma educata. “Reazione contraria allo spirito olimpico”, ha detto. Impossibile non vederci una ripicca nei confronti del numero uno del nuoto e suo arcinemico, Paolo Barelli (così come inevitabile è il sospetto che quanto accaduto al Settebello sia solo l’ultimo strascico della resa dei conti che lo ha riguardato nella Federazione internazionale). E lo stesso vale per gli altri errori subiti. Soltanto in un caso Malagò è intervenuto, per l’argento di Filippo Macchi nel fioretto, e lo ha fatto a sproposito, annunciando un presunto reclamo (di cui poi non si è avuta notizia) e imbastendo una strampalata teoria sui giudici asiatici (come se con un francese al tavolo ci saremmo sentiti più tutelati), stroncata pure dai suoi amici del Cio.
Tutto sommato è anche comprensibile che un uomo delle istituzioni non possa ergersi a capopopolo. Non lo ha fatto, per esempio, sul caso della pugile Imane Khalif. Vicenda delicatissima e scivolosa, su cui Malagò ha quasi sconfessato la posizione del governo di Giorgia Meloni. Ma d’altra parte, il presidente del Coni si è mostrato completamente irregimentato alla linea ufficiale anche sulle questioni organizzative, come le condizioni del villaggio degli atleti, o la decisione di far disputare le gare di nuoto in acque libere nella Senna. Forse perché sa, da presidente del Comitato organizzatore, che a Milano-Cortina nel 2026 ne combineremo anche di peggio, quindi meglio essere indulgenti. O semplicemente per non irritare gli organizzatori e i suoi “capi” del Cio, a cui sia il Coni che lui personalmente fanno riferimento. Sempre più diplomatico. Sempre più cerchiobottista. Sempre più uomo Cio, insomma, e sempre meno numero uno dello sport italiano. Che poi è ciò che rimarrà fra qualche mese se non sarà riuscito a far cambiare idea alla politica.
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