Il break ferragostano è il momento ideale per staccare dalle miserie quotidiane e orientare conversazioni e riflessioni verso temi un po’ meno contingenti. Ieri sera mi ha telefonato un amico sindacalista per sottopormi la domanda da un milione di dollari: “perché la politica è diventata deludente al limite dell’imbarazzante?”. Tema che ora ripropongo per i quattro affezionati lettori di questo blog.

Innanzitutto la questione va ritarata passando dall’entità astratta “politica” alla fisicità concreta dei soggetti che quella stanza virtuale abitano: “i politici” (e aggiungo subito “le politiche”, per non incorrere nelle rimostranze di un integralismo corporativo femminista, che considera offensivo l’uso del maschile per riferirsi alla pluralità dei generi). Un po’ quanto sosteneva il vecchio Pietro Nenni (riferimento apprezzato dal mio interlocutore serale, vecchio socialista craxiano): “le idee camminano sulle gambe delle persone”. E perché quelle idee sono diventate un coacervo di banalità inconcludenti? Condizione estranea ai trent’anni del secondo dopoguerra, in cui il dibattito pubblico fruiva di un repertorio di pensieri forti di matrice keynesiana, messi all’opera nella costruzione del Welfare State europeo (e già sperimentati negli anni ‘30 in terra americana con le politiche del New Deal).

La mia personale convinzione è che l’usura dell’ordine liberal-socialista, coesivo e inclusivo (seppure tendente alla burocratizzazione), ha favorito l’ascesa alternativa di un’ideologia che rompeva il patto sociale ed emarginava intere fasce di popolazione, a vantaggio di una plutocrazia di ritorno. La sostituzione – in quanto a riferimenti intellettuali – di John Maynard Keynes con Friederich Hayek; che significava il passaggio da competenze programmatorie a scalatori sociali carrieristi; ripetitori di banalità alla moda da quando furono portate al successo dal duo Thatcher-Reagan.

Dunque la sostituzione di teorie sociali e capacità di governo con semplificazioni consolatorie, che riproponevano il mito ingannevole della “Mano Invisibile” (i miracolosi effetti inintenzionali prodotti dall’interesse individuale) attualizzato negli automatismi salvifici del mercato e della finanza globale. Una ricetta che esimeva l’intero ceto politico dal pensare politica, visto che la soluzione di ogni problema consisteva nel secentesco “lasciar fare”. Il laissez faire che il mercante marsigliese Legendre indicava al ministro Colbert come panacea universale. Astuta argomentazione dell’imprenditore di mezzo millennio fa – tutt’oggi reiterata pedissequamente – per liberarsi dai fastidiosi lacci e lacciuoli della regolazione e dei controlli. Ora tradotto nel divorzio del capitalismo dalla democrazia. Di cui i nuovi politicanti sono diventati i diligenti officianti.

Con la conseguenza che la rispettabile figura del politico, intermediario tra i bisogni e le soluzioni, si è svilita in quella del mestierante senz’arte né parte; fonografo dei luoghi comuni dell’ortodossia che sovente non sono altro che preconcetti perniciosi. Per cui si sono consumati veri e propri disastri: la proletarizzazione del ceto medio riflessivo, la desertificazione del lavoro come soggetto costituente (tra l’altro sottoscrittore del patto keynesiano-fordista della cosiddetta “Età dell’oro”, nel trentennio 1945-1973). Parabola in caduta libera, speculare a quella dell’intellettuale declassato a comunicatore; personificata da Massimo Cacciari, in gioventù elaboratore delle tesi (smentite dalla storia) dell’operaio massa e dell’imminente crollo della società borghese, finito in età avanzata nei borghesissimi talk show a blaterare come un Vittorio Sgarbi di sinistra.

Soprattutto il feticcio privatista creava le condizioni per la definitiva sconfitta occidentale nella corsa alla primazia tecnologica con la Cina, il partito-Stato che conferma la superiore capacità egemonica della politica industriale. Quell’egemonia che gli Stati Uniti avevano consolidato tra la fine del XIX e il XX secolo grazie al paradigma democratico di interazione tra scienza e impresa, teorizzato dal filosofo liberal John Dewey e governato dalla Mano Pubblica. Modello stravolto da tre decenni nella deviazione affaristica denunciata da Mariana Mazzucato, in cui lo Stato ci mette finanziamenti e acquisizioni della ricerca pubblica, gestiti a piacimento da tycoon del silicio e simil-Rambo dell’impresa alla Elon Musk.

Ultraricchi che si comprano la politica e i suoi yes-men, mercificando l’innovazione in gadget per il business, infischiandosene dell’impatto sociale delle tecnologie. Difatti la Repubblica Cinese è in testa nella gara per la primazia nei settori avanzati (aerospazio, biofarmaceutica, semiconduttori e software) ed emergenti (IA e computer quantistici), in cui già dal 2020 sopravanzava del 17% la produzione americana e del 25% quella europea.

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