Sant’Anna, frazione di Stazzema a 660 metri d’altitudine, non era un paese delle alture lucchesi come tutti gli altri. Di norma, non annoverava più di 400 abitanti, per lo più boscaioli, contadini e pastori distribuiti in piccoli centri di poche case a vari chilometri l’uno dall’altro. Nell’estate del 1944, tuttavia, il numero di chi viveva in quell’area aveva superato alcune migliaia a causa degli sfollati che vi avevano trovato riparo. In molti erano giunti fin lì per sfuggire alle rappresaglie tedesche contro le locali formazioni partigiane, ma sembrava che nemmeno a Sant’Anna potessero trovare un po’ di tranquillità: lo testimonia un ordine di evacuazione affisso sul tronco di un platano nella piazza del paese, subito sostituito da un invito dei partigiani a rimanere. E poi giunse l’irreparabile.

Ancora prima delle 7 del 12 agosto 1944 – esattamente ottant’anni fa – in molti si accorsero degli uomini della 16a Divisione corazzata granatieri SS (16a SS Panzer-Granadier-Division) che accerchiarono i boschi intorno a Sant’Anna per stringere gli abitanti in un assedio sempre più feroce. Arrivavano, suddivisi in quattro colonne che marciavano in direzioni convergenti da Monte Ornato, Foce di Compito, Foce di Farnocchia e Val di Castello, seguendo un’attenta pianificazione. L’annuncio di ciò che stava per accadere, dopo i primi spari di armi automatiche in lontananza, lo diedero due razzi luminosi sparati verso il cielo e subito dopo iniziarono gli ammazzamenti per strada, gli incendi all’interno delle abitazioni e nelle stalle e il rogo nel piazzale della chiesa, alimentato con il legno delle panche per ridurre in cenere 138 persone (alcune delle quali ancora vive), secondo il conteggio di un sacerdote, don Giuseppe Evangelisti, pur consapevole – come testimoniò successivamente – che le vittime erano in realtà molto più numerose. A nulla valsero gli appelli di un altro religioso, don Innocenzo Lazzeri, parroco di Farnocchia: già al sicuro in un nascondiglio, uscì e si offrì in cambio della salvezza almeno dei bambini. Fu il primo a essere mitragliato.

Tre ore dopo le uniche persone ancora in vita erano quasi esclusivamente i nazisti e i loro complici repubblichini. Uccisero anche gli animali – un testimone affermò che “persino ai topi tiravano” –, lanciarono bambini vivi tra le fiamme, non ebbero pietà di puerpere e nemmeno di una neonata che aveva venti giorni. In totale, le vittime stimate furono 560, di cui 130 bambini. Si disse che la ragione dell’eccidio andava ricercata nella rappresaglia per il ferimento di un militare tedesco e per alcune uccisioni, ma i partigiani si erano ritirati da quella zona fin dall’8 agosto. I tedeschi ne erano a conoscenza, ma per gli invasori quella zona restava infestata da “banditen“, termine sotto cui rientravano i civili (compresi anziani, invalidi, donne e bambini), e Sant’Anna, equiparata a “prima base di banditi”, era stata “ridotta in cenere” anche per la sua prossimità alla Linea Gotica, ormai quasi pronta per il contenimento dell’esercito alleato agli ordini del generale Harold Alexander.

Più che una ritorsione, dunque, l’eccidio del 12 agosto 1944 fu – secondo il tribunale militare di La Spezia – “una vera e propria escalation di brutalità […] finalizzata al massacro della popolazione e alla distruzione di un intero paese. Suo unico scopo era quello di fare terra bruciata intorno ai partigiani e scoraggiare, oltre agli aiuti da parte della popolazione di altri centri, anche in ritorno in quella zona”. Alla violenza di quelle morti, però, non seguì nel dopoguerra l’immediata individuazione dei responsabili. A partire dal 1960, dopo le prime indagini delle commissioni costituite presso i comandi delle truppe alleate, l’inchiesta sui fatti di Sant’Anna di Stazzema fu a lungo congelata a causa della bizzarra “archiviazione provvisoria” disposta dal procuratore generale militare.

Ci vollero decenni perché si tornasse a indagare riascoltando i sopravvissuti, compreso Elio Toaff, il futuro rabbino di Roma che ai tempi era sfollato a Val di Castello da Livorno e che venne rastrellato insieme ad altri uomini per portare cassette di munizioni. Solo nel 1994, mezzo secolo dopo i fatti, da un armadio chiuso a chiave, protetto da un cancello installato a Palazzo Cesi, sede romana della Procura generale militare, saltarono fuori 695 fascicoli che raccontano anche la storia di Sant’Anna. Era il cosiddetto “Armadio della vergogna”, nato da una ragion di Stato che obbediva ai diktat della guerra fredda e che concesse tregua – e potenzialmente oblio totale – ai carnefici, velleità stroncata dalle nuove indagini degli anni Novanta e dai successivi processi.

Dal canto suo, la 16a Divisione nazista, già macchiatasi di altri massacri sui monti Pisani e tra Pisa e Lucca (ad accompagnare i militari tedeschi c’erano pure italiani che, secondo i sopravvissuti, parlavano spesso con accento versiliano), continuò a uccidere anche dopo i fatti del 12 agosto. Lo fece, tra l’altro, a Bardine di San Terenzo, in provincia di Massa Carrara, sul monte Sagro, lungo le Alpi Apuane, alla Certosa di Farneta e a Bergiola Foscalina. Continuò a farlo fino ad arrivare al più immane massacro nazifascista compiuto in Italia, quello di Monte Sole, a Marzabotto, dove, tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, si registrò un nuovo eccidio per il quale vennero stimate – in base ai dati delle anagrafi – 1830 vittime.

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