Alle cinque del pomeriggio piazza della Libertà è quasi vuota. Basta attraversare la strada per entrare nella stazione ferroviaria di Trieste e tra poco lo farà anche una coppia curda che tiene d’occhio i quattro figli da una panchina in penombra. Il più piccolo avrà due anni, il più grande al massimo sette. Lanciano qualche briciola a gabbiani litigiosi, grossi come tacchini. Poi tornano a passarsi un pallone che sembra masticato da un orso. La rotta balcanica non sempre finisce a Trieste: arriva almeno a Milano ed è lì che devono andare. Un operatore dell’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) si avvicina offrendo informazioni. Parla la loro lingua, ma viene respinto con gentile diffidenza. Poi una telefonata: raccolgono in fretta due zaini, i figli e raggiungono altre persone all’ingresso della stazione. “No Milano“, spiega chi ha fatto i biglietti. L’ultimo treno è già partito, ma si va lo stesso, intanto a Venezia. Sono rimasti a Trieste solo poche ore, nessuno li ha fermati. Come tanti altri migranti arrivati dalla rotta balcanica. Nel 70 per cento dei casi la meta non è Trieste né l’Italia. In piazza è rimasto il pallone: è come se non fossero mai stati lì.

Un’ora dopo la piazza sembra un’altra. Al centro vola un pallone da volley, nuovo. Giovani pakistani, afghani e non solo giocano con alcuni scout italiani. Intorno va in scena la solidarietà che qui è un evento quotidiano. Decine i migranti e altrettanti gli italiani, alcuni venuti da lontano per accogliere chi arriva a Trieste e aiutare i volontari locali che portano cibo e cure 365 giorni l’anno. “Sì, sono in ferie”, conferma Giulia, ingegnera energetica di 32 anni arrivata da Firenze col Centro missionario diocesano. Si fermano una settimana. Di giorno per incontrare la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas, il Consorzio italiano di solidarietà e i volontari di Linea d’Ombra, l’organizzazione di volontariato che nel 2019 ha “inventato la piazza del mondo”. Al tramonto per incontrare i migranti e dare una mano. “Un modo di nutrire la mia visione del mondo, la stessa che mi ha spinto a occuparmi di energie rinnovabili”, confessa Giulia. “Prima le nostre mete erano all’estero, in terre di missione”, spiega Mariachiara Pallanti, una delle coordinatrici. “Da qualche anno si sono aggiunte mete italiane”. Come loro ne arrivano centinaia a settimana, da ogni parte d’Italia: comitive parrocchiali, volontari di altre associazioni, attivisti e 90 clan di scout solo tra luglio e agosto, con una quindicina di ragazzi per gruppo. Tutti qui per incontrare i “transitanti”, i migranti che le istituzioni preferiscono non vedere.

La statua di Elisabetta d’Austria, meglio nota come Sissi, osserva con espressione distante, separata com’è dalle transenne che impediscono a chi non ha dove fare i propri bisogni d’insozzare il monumento. Alle sette e un quarto una fila ordinata dà le spalle all’imperatrice in attesa di mangiare quello che le volontarie hanno portato. Su un’altra panchina, la decana dell’associazione Linea d’Ombra, Lorena Fornasir, cura i segni lasciati dalla rotta balcanica, tra garze, pomate e altre medicine. Un veloce passaparola attraversa la piazza: un uomo afghano ha saputo della morte di suo padre e ha portato del cibo da condividere per poterlo celebrare. Sarà parte dei ricordi da portare a casa: a Mestre, Treviso, Genova, Vicenza, Macerata, Modena o Cittadella in provincia di Padova, solo per citare alcune delle città rappresentate in un giorno feriale di fine luglio. Anche Olga, capo scout del gruppo di Mestre, è in ferie. Le piace fare queste esperienze insieme ai ragazzi perché, dice, “sono schietti, senza le troppe sovrastrutture che zavorrano noi adulti”. Francesco, uno dei suoi ragazzi, spiega che si danno da fare anche a Mestre, dove certo gli stranieri non mancano. “Ma qui c’è stato uno scambio alla pari, che ha rotto lo schema della solidarietà alla quale eravamo abituati: augurerei a tutti un’esperienza così”.

Si accendono i lampioni, le vettovaglie vengono ritirate e si formano dei capannelli. “Di recente vediamo gruppi di ragazze nepalesi dirette in Portogallo”, racconta Marianna Buttignoni, anche lei in piazza con Linea d’Ombra. Piazza che misura i cambiamenti del flusso migratorio, registra che arrivano più donne e famiglie, soprattutto curde, mentre i minori non accompagnati sono sempre tanti, almeno il 30 per cento. Anche i corpi parlano: ci sono meno piedi da medicare, segnale che i transitanti viaggiano più spesso su mezzi di trasporto. Altre ferite rivelano le violenze, i cani aizzati contro di loro dalle polizie lungo le frontiere attraversate, quelle dove i boschi restituiscono cadaveri come nei giorni scorsi in Bulgaria, lungo il confine turco. Sempre in piazza anche Gian Andrea Franchi, il marito di Lorena, 88 anni. “Vacanze? Non ricordo l’ultima”, risponde. E’ passata la mezzanotte e la stanchezza si fa sentire. “Lorena è tutta azione, non si ferma e a volte capita di discutere. Ma in tutta la mia vita – aggiunge – non mi sono mai sentito così al posto giusto”. Cura le relazioni, i rapporti con con i donatori, anche all’estero. E fa lezione ai gruppi in piazza. E non rinuncia a tradurre tutto questo in pensiero politico: “Quando abbiamo iniziato ricordo compagni che storcevano il naso: è roba per la Caritas, dicevano”. Sta lavorando a un nuovo libro su quella che chiamano “pratica politica della cura“, un’esperienza che “una volta vissuta non torni indietro: cosa dovrei fare in vacanza, le passeggiate?”.

All’una di notte la piazza è un dormitorio. Sotto le dorate coperte termiche dormono almeno 40 persone. “Ci sono anche due ragazzi palestinesi arrivati da Gaza“, dice Gian Andrea indicandoli. Uno è certamente minorenne e dorme come si dorme a quell’età. Intorno, a rappresentare le istituzioni cittadine c’è solo il sistema di irrigazione che scatterà alle cinque del mattino e per fortuna il primo treno per Milano parte prima. “Non c’è interlocuzione, né con il comune né con la prefettura”, spiega Gian Andrea a un mese dallo sgombero del famigerato Silos, il rudere dell’ottocentesco magazzino ferroviario al lato della stazione dove i migranti hanno trovato riparo per anni in condizioni igieniche disperate. Si può sbirciare oltre i sigilli: il pavimento di terra è ancora coperto di scarpe, pentole, indumenti, tende. Fin dal giorno dello sgombero, qualcuno si è accampato in altri ex magazzini del porto asburgico, appena più defilati dell’originale dove nelle ultime settimane qualcuno è tornato a dormire. Negli anni scorsi, ci sono finiti anche centinaia di richiedenti asilo, che andrebbero accolti per obbligo di legge. I trasferimenti verso altre regioni venivano disposti a singhiozzo, così il sottodimensionato sistema di accoglienza era sempre saturo. L’arrivo a Trieste del Papa e del Presidente della Repubblica a inizio luglio ha imposto lo sgombero, la promessa di aumentare i posti in città e di trasferimenti più veloci. I trasferimenti sono oggi più regolari, ma di posti per i richiedenti uomini nell’ex ostello scout di Campo Sacro, la soluzione indicata a otto chilometri dal centro cittadino, in questi giorni ne rimangono quattro. L’ampliamento promesso richiederà ancora tempo e se il prossimo trasferimento non arriva in tempo ci saranno nuovi richiedenti sulla strada. Paradossalmente, i posti per le famiglie sono ancora meno dopo i problemi del centro di prima accoglienza loro destinato sul confine con la Slovenia, ridotto male a causa delle mancate manutenzioni. Alcune trovano alloggio nel dormitorio messo a disposizione dal vescovo di Trieste, Enrico Trevisi, una ventina di posti che però si riempiono in fretta. E infatti ci sono nuclei di richiedenti che rimangono sulla strada, come è accaduto in questi giorni a una famiglia irachena con una bambina di un anno e mezzo.

A mancare quasi del tutto è poi l’accoglienza di bassa soglia, quella per chi si ferma una notte o due al massimo. Per rifiatare, attendere che arrivino i soldi da casa per proseguire il viaggio, comprare un telefono distrutto dalle polizie di confine, vestiti nuovi. Nel 2023 le realtà che lavorano con l’immigrazione hanno incontrato oltre 15mila persone. Un numero sottostimato perché tanti arrivano di notte e ripartono all’alba senza che nessuno noti il loro passaggio. I volontari ritengono che fino all’80 per cento dei migranti sia in transito: alcuni verso altre città d’Italia, la maggioranza verso altri Paesi europei. Durante il giorno, a pochi passi da piazza della Libertà, ad accoglierli è il Centro diurno di via Udine. L’immobile è della Fondazione Cassa di risparmio di Trieste e l’ha in gestione la Comunità di San Martino al Campo per l’assistenza ai senza tetto che oggi si mescolano ai migranti. Bagni, docce, un ambulatorio, volontari che distribuiscono cibo e bevande e offrono un servizio di orientamento. “Per chiudere il cerchio dell’accoglienza di bassa soglia basterebbero qualche decina di posti letto, una sessantina al massimo, da sommare alla ventina messa recentemente a disposizione dalla diocesi”, spiega Davide Pittoni del Consorzio italiano di solidarietà – ICS, che si occupa di assistenza socio legale: “Qui entrano fino a 200 persone al giorno”.

Davide conferma la riduzione dei viaggi a piedi e la maggiore facilità a superare la Croazia dopo che l’anno scorso il Paese è entrato nell’area Schengen: “La polizia croata dà loro un invito a fare richiesta di asilo, una farsa prima di lasciarli andare”. Al contrario, riferisce, “la violenza dei trafficanti è quella che nei racconti ha sostituito in parte quella delle polizie”. Certo, le violenze delle uniformi non sono finite, anche sul confine croato e i segni curati in piazza lo testimoniano. Nel centro fa caldo, l’umidità fa sudare, l’impianto di condizionamento non va. Sulla bacheca gli orari dello sportello di Emergency, una delle realtà che operano nel centro insieme a Donk HM, Diaconia Valdese, IRC e Rescue, le cui volontarie, altre insolite vacanziere venute da Milano, preparano una merenda. Nella sala, alcuni scout fanno lezione d’italiano. “La Serbia sta vivendo un’esplosine dei gruppi di trafficanti e tutta la rotta sembra più strutturata: non ce la si fa più da soli, ma servono più soldi e questo comporta anche un controllo delle persone che in alcuni casi equivale a veri e propri sequestri finché non sarà tutto saldato”, continua Davide che tiene d’occhio l’orologio e le cose da fare. Il centro chiuderà alla sette si sera e gli stranieri scenderanno nuovamente verso la piazza affollata tra volontari, scout e turisti solidali. Poi la notte all’aperto, finché le temperature estive lo permetteranno. Alcuni minorenni afgani sono appena arrivati.

Mentre uno di loro si fa medicare la caviglia (foto), chi parla inglese accetta volentieri qualche informazione sulla biglietteria della stazione. In cambio offrono la storia di un viaggio durato nove mesi. “Tremila euro per arrivare in Turchia passando dall’Iran, poi ho dovuto lavorare per cinque mesi, fabbricavo suole di scarpe”, inizia a raccontare un sedicenne. “Per superare la Bulgaria servono almeno quattromila euro perché è più difficile, lì la polizia è crudele: quando ci hanno presi ci hanno spogliati completamente, rubando soldi e ogni altra cosa di valore, da allora non ho più il mio cellulare. Alla fine ci hanno riportato in Turchia”. Chiediamo se ha sentito parlare di rapimenti e richieste di riscatto e lui conferma che in Turchia ne ha sentite tante di quelle storie: “Chiamano la tua famiglia e se non paga minacciano di ucciderti, mi hanno raccontato dei compagni di viaggio”. Prosegue: “Dai bulgari siamo stati catturati una seconda volta, ma quando capita a Nord di Sofia non hanno voglia di riportarti indietro e finisci in un campo. Da lì abbiamo proseguito per farci arrestare in Serbia e finire in un altro campo. Il resto del viaggio costa mille euro. Qualche settimana ed eravamo in Bosnia e poi in Croazia, dove se non fosse stato per un amico che sa nuotare sarei annegato attraversando un fiume. Ci hanno arrestato anche lì e dato un foglio di carta, ma dopo una notte eravamo liberi di continuare. In Slovenia sono stati molto gentili e così eccoci qua”. E domani? “Domani andiamo a Milano, e poi in Francia e in Germania, dove abbiamo dei compagni di classe partiti anni fa”.

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