Ambiente & Veleni

La ‘transizione assistita’ non salverà i boschi, ma è una prima risposta all’agonia

Come ben noto, prima Vaia e poi il terribile bostrico hanno ridotto i popolamenti boschivi delle Alpi orientali a organismi malati che stanno agonizzando. Basta farsi un giro dalle parti della Val di Fiemme per vedere come il paesaggio è mutato: circa il 60 per cento delle foreste se n’è andato. Intervenire, dunque, è la parola d’ordine. Ma come fare? Come agire? Curare i sintomi? E le cause?

L’approfondito articolo di Alberto Marzocchi cita un libro di due giovani studiosi (un antropologo e un forestale) che è un ottimo consiglio di lettura per saperne di più sul rapporto tra uomo e foreste e, perciò, sulle nostre montagne. Si tratta di Sottocorteccia, di Pietro Lacasella e Luigi Torreggiani (People), uscito ad aprile.

Gli autori se ne vanno tra le montagne avviando un’indagine che ha il passo del libro di viaggio e insieme lo scavo del saggio scientifico-umanistico. Il bostrico, si dicono i due, non può essere solo la causa della moria di alberi, ci deve essere di più. Il bostrico è soprattutto il sintomo di qualche cosa di molto più vasto: scelte sbagliate che hanno portato a boschi monospecifici, coetanei, dunque fragili.

Va anche detto però che dopo lo spopolamento e l’emorragia di giovani delle nostre montagne iniziato dal Secondo Dopoguerra, il bosco è avanzato ovunque. L’Italia è selvosissima. 11,8 milioni di ettari di boschi, pari circa al 40 per cento del territorio nazionale, con punte massime in Liguria, dove si arriva all’80 per cento. Eppure continuiamo a importare legname da opera per circa il 90 per cento. Anche perché il popolo vegetale intorno a noi (oltre a essere malridotto, come abbiamo visto) è composto da piante vecchie e di scarso valore. Boschi cedui, pochi alberi colonnari. E allora, che fare?

“Transizione assistita” – per esempio – sono due parole magiche che contengono in sé una piccola rivoluzione per i boschi che verranno. Vuol dire dire messa a dimora di piantine appartenenti a specie arboree che normalmente vegetano a quote più basse. È una nuova, eloquente, strategia di emergenza da mettere in atto dove ci sono state le grandi morie (vedi Dolomiti). Significa prevenire l’innalzamento del clima. Ma è una goccia nel mare, solo un esempio del nuovo approccio di cura dei boschi.

Non saranno certo queste soluzioni selvicolturali a risolvere i problema, che in realtà sta all’origine. C’è una mentalità diffusa da cambiare: va fondata un nuova consapevolezza nel legame tra noi e gli ambienti naturali. Se ci piace il tavolo di legno e non di plastica, se ci piace la nuova edilizia ecocompatibile di legno, dovremmo pensare che gli alberi vanno anche abbattuti. Non ne possiamo fare a meno. Il legno è la materia prima del futuro, perché la più riciclabile e vicino a noi. Eppure…

Si sente spesso dire: “Bisogna ritornare a una dimensione selvaggia della natura”. “Gli alberi vanno piantati, vanno abbracciati, non tagliati”. “L’uomo deve fare un passo indietro”. In realtà, più che nell’assenza, noi umani dovremmo ritrovare la convivenza con gli ambienti naturali attraverso la cura, anche per rimediare ai danni da noi stessi provocati. Lo si voglia o no, l’uomo è al centro di se stesso e del mondo che lo circonda.

Non dobbiamo condannare l’uomo in quanto tale. Non è questo il punto. Sarebbe come annientare l’orchestra perché suona una brutta musica. Il pericolo non è l’uomo in sé, ma i suoi comportamenti nefasti, l’emissione di inquinanti, la crescita ad oltranza delle produzioni, la tendenza a confondere il benessere con il consumo. Noi dobbiamo continuare a suonare, ma una musica diversa basata, oggi più che mai, sulla cura attiva.