Una vetrina con esposte le prime pagine del giorno, qualche sgabello sul marciapiede e un capannello di persone che discutono animatamente. Chi negli ultimi 53 anni è passato davanti all’edicola di via Gonzaga, alle porte del paese di Guastalla (Reggio Emilia) non può essersi perso uno dei salotti più importanti della zona. Un ritrovo di amici, ma anche semplici passanti, che prendevano il giornale e lo commentavano in compagnia. Un luogo dove, come si dice da quelle parti, si faceva “filòs”, ovvero si discuteva. E che dal 31 luglio ha tirato giù la saracinesca. L’edicola di Fausto Veneri e Carla Valentini ha chiuso e come decine in tutta Italia non ha trovato sostituti. Il paese e la provincia restano orfani di uno spazio che aiutava a diffondere le informazioni e accoglieva chi aveva domande. Il lavoratore di passaggio, i ragazzini in cerca di fumetti nel retrobottega o l’avversario del derby: con tutti c’era tempo di scambiare due chiacchiere. Da qui, mentre in piazza si girava il film Novecento di Bernardo Bertolucci, è passata l’attrice Stefania Sandrelli. E pure lo scrittore e sceneggiatore della Bassa Cesare Zavattini. “Di questo mestiere mi è piaciuto tutto”, racconta Veneri cercando di ricacciare in gola la commozione. “Il contatto con la gente. Le discussioni. Perfino le arrabbiature. Era un dibattito continuo”. Il giornalaio di via Gonzaga ha iniziato nel 1971 e i giorni in cui ha riposato sono così pochi che li ricorda a memoria. Ogni mattina, mentre la moglie Valentini apriva l’edicola, lui andava casa per casa con la sua bicicletta a portare le copie dei quotidiani. E per anni ha distribuito i giornali anche per i reparti dell’ospedale cittadino. Ora l’edicola di via Gonzaga è chiusa per sempre e, dove si trovavano le persone, c’è una targa comunale che ricorda quando si faceva “filòs”.

Quando ha deciso di aprire l’edicola?
Era il 1971 e frequentavo la cellula del Pci del paese. Nella via principale, c’era un bar gestito dal segretario del partito che vendeva anche i giornali. Quando ha deciso di smettere, James Malaguti, partigiano e dirigente importante, mi ha chiesto se fossi interessato a fare quel lavoro. Ho accettato. Mi hanno prestato i soldi e piano piano li ho restituiti.

Perché doveva restare aperta?
Intanto per la diffusione de l’Unità: ogni domenica erano 200 copie in un paese di 14mila persone. Non poche. E poi era un punto di ritrovo. Tanto che all’inizio volevamo farci insieme una biblioteca. Era giusto che ci fossero gli oratori, ma servivano anche altri punti di aggregazione.

Com’è stato l’inizio?
I primi giorni mi chiedevo se saremmo riusciti ad andare avanti. Ad aiutarmi c’era mia mamma e poco dopo è arrivata anche mia moglie. Io ho iniziato a distribuire i giornali con la bicicletta. Andavo a casa di chi lo chiedeva, ma anche in ospedale. Giravo per i reparti e così si creava un rapporto con le persone. Se c’era qualcuno con cui avevo confidenza gli dicevo: “Ma che brutta cera”. Ridevano e mi mandavano a quel paese. Ma mi aspettavano.

Conoscevi uno a uno i lettori?
Ogni mattina facevo 20 km, tra il centro e le frazioni. Tutti i giorni, uscivo per due ore e distribuivo i quotidiani. Anche con la pioggia, ma li portavo sempre asciutti. Per rinunciare doveva proprio esserci il diluvio. Per ogni casa sapevo dove lasciare la copia, se suonare o meno, e dove ad aspettarmi ci sarebbe stato il cane. Molti non sarebbero mai andati in edicola fisicamente. Ora che chiudo, credo che almeno la metà smetteranno di comprare il giornale ogni giorno.

Com’è cambiato il mestiere di giornalaio?
Non credo l’edicola sia meno importante, solo che oggi chi cerca informazioni le trova in tempo reale. E gli editori avrebbero potuto pensare a più interventi per aiutarci. In Emilia Romagna hanno fortunatamente dato incentivi a chi teneva aperto la domenica e a chi faceva consegne a domicilio.

I lettori come sono cambiati?
Tra i giovani sono pochissimi quelli che comprano il quotidiano e al massimo qualche giornale sportivo. Sopra i 40 invece, sono più legati alla carta. Fino all’inizio del 2000 vendevo anche 350 copie al giorno. Adesso sono la metà. E solo perché i giornali locali tirano un po’ di più. A Reggio Emilia credo che negli ultimi 6 mesi abbiano chiuso 5 o 6 edicole. E’ un massacro.

Le edicole dovrebbero reinventarsi?
Mi ha fatto arrabbiare un signore di Milano che sul Corriere della sera rivendicava di tenere aperta la sua in una zona centralissima. Ma da lì passano centinaia di persone. C’è chi trasforma le edicole offrendo altri servizi. In un paese però, è difficile.

Il sindaco Paolo Dallasta, quando vi ha consegnato la targa il giorno della chiusura, vi ha definiti “la porta del paese”.
Passavano tutti di qui. Al pomeriggio poi, verso le 15, tiravo fuori gli sgabelli e venivano le persone per commentare lo sport, la politica e tutto quello che succedeva durante la giornata. Insomma per fare filòs.

Come si spiega il “filòs”?
Un giorno una ragazza marchigiana, in paese per lavoro, è entrata e mi ha chiesto: è qui che si fa il filos? (ride ndr). Mi ha spiegato che aveva studiato filosofia e che la parola dialettale veniva proprio dal fare dibattiti. Le abbiamo detto di fermarsi con noi.

Anche quello faceva parte del lavoro?
A nostro modo eravamo un presidio per sapere cosa succedeva in paese. Perché tutti venivano a parlare e confrontarsi. E insieme mettevamo in ordine le cose.

Mentre i centri si svuotano, voi li riempivate?
E’ gravissimo quando mancano questi punti di riferimento. Da noi, un tempo ce ne erano tanti. C’era la cartoleria dove andava chi aveva simpatie più democristiane. Poi c’era un altro commerciante da cui andavano di più i socialdemocratici. Tra noi c’è sempre stato un po’ di sana rivalità. Ma siamo stati per anni a chiacchierare. Ora chiudiamo anche noi ed è difficile trovare luoghi di incontro così. Non si va neanche più al bar.

Ad Antonio Lecci, sul Resto del Carlino, ha detto di aver ospitato anche persone famose al suo “filòs”.
Durante le riprese del film Novecento di Bertolucci, girato in parte anche a Guastalla, si è fermato Cesare Zavattini. E’ venuto e mi ha chiesto se poteva sedersi e riposare un po’. “Ci mancherebbe altro, maestro stia seduto”, gli ho detto. Abbiamo parlato in dialetto perché era originario di queste parti. Gli ho chiesto del suo libro “Stricarm’ in d’na parola”. E della foto famosa che gli fece Berengo Gardin in bicicletta a Luzzara. Bellissima. “E’ stato bravo”, ha detto. Poi è passata Stefania Sandrelli.

Per comprare il giornale?
Voleva vedere le foto uscite della famosa scena del funerale girata alla casa del popolo. Era soddisfatta. Poi è rimasta lì a chiacchierare. Mi ha anche fatto una dedica su un libro di Hemingway che stavo leggendo. Al pomeriggio, in edicola succedevano queste cose.

Il giorno in cui ha venduto più copie?
Quando è morto Berlinguer. Mai così tante. Poi anche quando ci fu il sorpasso del Pci alle Europee. E la vittoria al Mondiale dell’82. Ultimamente abbiamo venduto così solo quando è morto qualcuno di importante a livello locale.

Cosa ha amato di più del mestiere?
Il giro. Il contatto con la gente. Le discussioni. Le incazzature. Tutto. Era un dibattito continuo.

Che futuro hanno le edicole?
Temo fra dieci anni non ce ne sarà più neanche una. A parte forse qualcuna negli aeroporti e le stazioni. Spero di sbagliarmi, ma non mi sembra a nessuno importi salvarle. La gente deve avere l’opportunità di scegliere un giornale, di vedere quelli che esprimono posizioni diverse. Se spariscono le edicole, spariscono anche i punti di incontro. Io la mia l’avrei ceduta anche gratis, ma nessuno si è fatto avanti.

*Foto di Giorgio Andreoli

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