Nel capitolo VI del Don Chisciotte, gli amici dell’hidalgo (steso a letto malconcio), il curato e il barbiere, in combutta con la nipote e la governante, si introducono nella sua biblioteca. Hanno deciso che devono essere quei “maledetti libri”, in gran parte dedicati alla cavalleria, la causa della sua follia. E dopo un sommario esame, ritengono che quasi tutti “meritino di essere arsi come libri ereticali”. Detto fatto, vengono buttati dalla finestra per farne un bel mucchio a cui dare fuoco.

Queste pagine ispirano una delle scene più significative del bel Don Chisciotte ad ardere delle Albe/Ravenna Teatro, visto a fine giugno a Ravenna Festival e costruito con il metodo ormai collaudato della “chiamata pubblica”. Il coro, composto da cittadini ravennati di ogni età, decreta la condanna di una serie di opere “pericolose”, scelte fra gli autori più “eretici” della contemporaneità, con Dostoevskij, Simone Weil e don Milani in testa, e le getta nello spazio davanti agli spettatori.

In realtà, il libro ha goduto da sempre di cattiva stampa, mi si passi il gioco di parole. Se è vero che lo stesso Gutenberg subì processi per la sua “arte occulta” e altri stampatori, pur avendo pubblicato la Bibbia, subirono accuse di stregoneria. In questa opera persecutoria la Chiesa, manco a dirlo, è sempre stata in primissima fila, con il suo famigerato Index librorum prohibitorum, che esordì nel 1559. Al punto che, talvolta, più delle loro opere preferiva bruciare direttamente gli autori: come Giordano Bruno, messo al rogo il 17 febbraio del 1600 in Campo de’ Fiori a Roma, mentre Cervantes aveva già iniziato la stesura del suo capolavoro. E sappiamo cosa fu costretto a fare pochi anni dopo Galileo Galilei per salvarsi.

In seguito, saranno soprattutto i regimi totalitari a distinguersi in proposito. E se tutti, giustamente, ricordiamo i roghi dei libri decisi dai Nazisti negli anni Trenta (che Ray Bradbury reinventò in chiave distopica nel bellissimo Fahrenheit 451, del 1953), non dobbiamo dimenticare i tanti poeti e scrittori perseguitati dallo stalinismo e dai suoi seguiti: da Majakovskij a Mandel’štam, a Babel, fino ai dissidenti degli anni Sessanta e Settanta, a cominciare da Solgenitsin.

Oggi le cose sembrano migliorate a prima vista, almeno in Occidente, ma gli scrittori continuano a rischiare la vita con i loro libri, se li scrivono in Paesi oppressi da regimi illiberali e oscurantisti, per altro in grado di braccarli e colpirli anche fuori dai loro confini. Come insegna il caso di Salman Rushdie. E persino nella civilissima e democratica Italia, un autore come Roberto Saviano è costretto a vivere da anni sotto scorta per aver pubblicato libri sulla camorra.

Vero è, però, che la costante persecuzione del libro nell’Europa moderna non è mai riuscita ad arrestarne l’ascesa impetuosa, grazie alla progressiva diffusione della stampa. E credo (spero?) che così avverrà anche in futuro, a qualunque supporto esso sarà affidato. La ragione in fondo è semplice e Antonin Artaud la spiegò con la sua consueta efficacia nella prefazione a Il teatro e il suo doppio: “Si può incendiare la biblioteca di Alessandria. Al di sopra e al di fuori dei papiri esistono delle forze; potremo temporaneamente perdere la facoltà di ritrovare queste forze, ma nulla riuscirà a spegnere la loro energia”.

E’ di questo genere di convinzioni irriducibili che si nutre (e ci nutre) lo spettacolo pessimisticamente ottimista creato da Marco Martinelli e Ermanna Montanari, riunendo le prime due tappe del progetto. In fondo si tratta di continuare con testardaggine, nonostante tutto, a credere nell’Uomo (qui don Chisciotte, ma potrebbe essere Amleto, fra l’altro coevo dell’hidalgo), anche quando l’umanità sembra essere ovunque straziata nell’anima e nelle carni.

Attendiamo con grande curiosità, per il prossimo anno, la terza e ultima tappa di questo viaggio teatrale nel romanzo-mondo di Cervantes.

Foto di Silvia Lelli, tratta dal canale Instagram del Teatro delle Albe

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