Sono passati appena cinque anni dal ‘primo funerale di un ghiacciaio’ – notizia che fece il giro del mondo, partendo da Reykjavik: alcuni attivisti e politici islandesi, tra cui l’allora primo ministro dei Verdi Katrin Jakobsdottir, organizzarono una cerimonia per il disciolto Okjokull, apponendo una targa commemorativa e di monito per la salvaguardia dell’ambiente.

A quel punto erano già arrivati a più di una cinquantina, sui circa 300 storici, i ghiacciai d’Islanda liquefatti dal riscaldamento globale. Oggi gli studiosi evocano addirittura la possibilità che spariscano tutti entro la fine del primo secolo del Duemila.

Cinque anni dopo, in questi stessi giorni, con lo zero termico che svetta intorno alla cima più alta d’Europa, il Monte Bianco, a destare una certa attenzione mediatica sono stati i filmati che ritraggono i turisti in maglietta all’arrivo della funivia sull’Aiguille du Midi. La stazione meteo automatica dell’Arpa al Colle Major (4750 metri) è rimasta sopra lo zero per 33 ore consecutive, dalla mezzanotte del 10 agosto alle 9 del 11 agosto: il picco record di caldo in quota non lascia dubbi agli esperti come Luca Mercalli.

Molti turisti sono lì solo per scattare il canonico selfie sullo sfondo del Mer de Glace, pur moribondo e quasi rosseggiante dopo una ventata di micidiali polveri del Sahara. Lo stesso giorno, non a caso, un enorme saracco è crollato per il caldo travolgendo gruppi di alpinisti che si ostinavano a tentare la salita in vetta, e per un pelo non s’è sfiorato il bis della tragedia sulla Marmolada.

Entro il 2050 qualcuno organizzerà magari una cerimonia come quella islandese per i nostri ghiacciai del Bianco tra Francia e Valle d’Aosta. Gli impianti di risalita, da Chamonix e da Courmayeur, scaricheranno dinanzi a targhe commemorative intere comitive di turisti della nostalgia in pantaloncini corti e canotta. ‘Qui c’era il ghiacciaio del Monte Bianco, lassù a sinistra s’intravede ancora la piccola calotta di neve che segna la cima, ormai quasi cento metri sotto gli storici 4810’, si leggerà magari a Punta Helbronner, all’uscita dagli ovetti panoramici della Skyway (nessuna lapide ricorderà il varo di questa faraonica funi-follia, già in pieno global warning, nel 2022, né il costo per le tasche dei contribuenti, un centinaio di milioni di euro…pensare che tra Zermatt e Cervinia ne hanno appena inaugurata un’altra…).

Per tornare in Islanda, la stessa leader dei Verdi che celebrò sul monte Ok quel funerale del ghiacciaio è stata appena sconfitta alle elezioni presidenziali da una perfetta turbo-capitalista all’occidentale, l’indipendente Halla Tómasdóttir, imprenditrice e manager di formazione e carriera americane. Nel suo striminzito programma ha promesso un ulteriore incremento dell’attività turistica, insieme a bazzecole tipo contrastare ‘l’effetto dei social media sulla salute mentale dei giovani’ e garantire un ruolo guida all’Islanda nello sviluppo dell’intelligenza artificiale.

Ecco il punto, insieme ad altri ghiacciai si è un po’ sciolta la tensione collettiva per salvare il Pianeta. E se anche il destino del piccolo paradiso naturale islandico sembra segnato ormai in modo irreversibile, nonostante anni di governi ambientalisti (e addirittura de ‘i pirati’ nella capitale), a determinarlo è stato il comparto economico che contribuisce in modo più micidiale alla catastrofe ecologica, perché ne siamo tutti complici e vittime: il turismo.

Come la più efficiente delle industrie culturali, così spietata come nemmeno Adorno e i sociologhi di Francoforte avrebbero potuto immaginare, il turismo è il trita-tutto che riutilizza paradossalmente benissimo anche le ideologie sulla carta più critiche. In fondo, persino i funerali dei ghiacciai compresi si possono trasformare in elementi di richiamo.

La più famosa delle grandi battaglie ecologiste negli anni Duemila in Islanda, la lotta contro il progetto della diga kolossal di Kárahnjùkar e del connesso impianto di fabbricazione dell’alluminio, ha visto mobilitarsi grandi nomi, dagli artefici del post-rock norreno come l’elfo Bjork e i mitici Sigur Ròs, a un archi-arti-star come Olafur Eliasson. Ovvero gli stessi che hanno in qualche modo portato in giro per il mondo l’immagine iconica dell’Islanda come paradiso, contribuendo a far muovere verso Nord con aerei e auto anche i più dichiarati odiatori del turismo di massa, in un boom di visitatori da tutto il mondo.

Basta poi andare sul sito della nostra WeBuild per vedere come viene presentata oggi Kárahnjùkar, con tutti quei numeri da record – 193 metri d’altezza, 730 metri di fronte, 40 km di tunnel sotterranei, 8 milioni e 500mila metri cubi di materiali impiegati. E quanto sia addirittura un perfetto esempio di ‘greenwashing’ la costruzione di una centrale-monstre ai piedi di un grande ghiacciaio d’Islanda (nazione che pure conta già, con tutti quei vulcani in attività, su una quota enorme di energia naturale geotermica).

Dei grandi festosi raduni di protesta e d’amore per la propria terra restano la splendida colonna sonora, con l’arcinota ‘Náttúra’ lanciata da Bjork come inno e i vari brani di ‘Heima’, il lavoro dei Sigur Ròs su quella serie di concerti gratuiti e spontanei in patria, con in testa la meravigliosa ‘Hoppipolla’, che canta la gioia d’andare a danzare tra le pozzanghere.

Non è difficile immaginare che un giorno anche questo mega-impianto sarà una strepitosa destinazione turistica del post-mondo. Già, anche Kárahnjùkar avrà la sua fatale targa memorialista, magari con amplificatori concavi di vetro firmati da un Eliasson, che riproporranno come canti della nostalgia proprio ‘Hoppipolla’ o ‘Náttúra’.

Se ne riparla entro il 2100, o nemmeno così lontano, stando agli allarmi – inascoltati – degli ecologisti che denunciano l’erosione di parti della costruzione di Kárahnjùkar e il potenziale catastrofico dei problemi legati alla deviazione del fiume glaciale Jokulsa.

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