Era annunciata, ed in parte da lui steso auspicata, la morte di Alain Delon.
Colpito da malattie fisiche, opacizzato dal buio della depressione, tribolato da faide familiari, questo attore ha, in cauda, impartito una magistrale interpretazione di quella commedia chiamata ‘vita’ narrando il declino di un uomo che pareva intramontabile.

Oggi la grancassa dell’attore ‘immortale’ o il ‘più grande’ è assordante e il suo ricordo paga il prezzo della banalizzazione mediatica e del diffuso senso di generalizzazione. Un dire comune, superficiale, che non ha mai tenuto in conto del peso della bellezza e del suo distinguo dalla bravura.

Delon fu un uomo dal fascino intramontabile, capace di alcune interpretazioni memorabili, ma a parere mio lontano da altre figure del grande schermo che seppero unire il fascino ad una capacità recitativa eccelsa. Sì, perché il fascino può essere un peso, e può portare un uomo (una donna) a divenirne prigioniero.

Ci sono stati altri attori dicevo, bellissimi e carismatici, ma dotati al contempo di una maestria e una potenza scenica che andava ben oltre la loro bellezza. Paul Newman, icona di bellezza e al contempo attore gigantesco. Marlon Brando, affascinante come pochi, a tratti ineguagliabile davanti alla telecamera.

Al Pacino, che in ‘profumo di donna’ abbraccia la ragazza al ritmo del tango allestendo una scena che unisce il meglio del Metodo Stanislavskij ad un fascino magnetico. Riguardatevela. Osservate le sue mani e il suo sguardo cieco fissare il nulla mentre la fa ballare. Trovare qualcuno di più bello di lui, in quel momento, è impresa ardua.

Delon, di certo attore importante ma non a quei livelli, per me va invece ricordato per quello che, a fine carriera, ha saputo dire. Ed è stato magistrale, in questo sì. Si è preso il palcoscenico in numerose occasioni narrando la sua discesa agli inferi toccando punte di autenticità commovente.

Invecchiare fa schifo. Non puoi farci niente, l’età si fa sentire. Non riconosci la faccia, perdi la vista… Per questo ho chiesto a mio figlio Anthony, di organizzare la mia eutanasia per quando sarò pronto”. E’ con frasi come queste che ha raccontato in modo cinico, quasi celiniano, l’autunno della vita. Dissacratore della vecchiaia condotta alla sua cruda durezza, alla sua precaria infermità, in un mondo che la scotomizza rendendola un evento quasi accidentale, o la esalta come propaggine di una infinita giovinezza. Vecchiaia che viene esaltata, al pari della follia e della povertà, da chi non ne paga il prezzo sulla propria pelle.

E’ stato audace nel dire che non c’è nulla di poetico nel non vedere più, nell’avere bisogno di qualcuno per alzarsi in piedi, per andare in bagno. Il suo ‘la vecchiaia fa schifo’ è un grido di verità che zittisce e ridicolizza la diceria mitizzata dell’invecchiate fascinosi oggi assai in voga sui media, popolati da settantenni muscolari, atletici, tonici, impegnati a fare flessioni ad ogni ora del giorno tra una conquista amorosa e l’altra.

Ci riflettevo percorrendo l’autostrada: due anziani signori salutano dal cartellone pubblicitario mentre si godono l’assolato panorama di una spiaggia sudamericana nella quale sono arrivati grazie a un premio della loro formula assicurativa. Non meno vivaci della coppia di pensionati che, fiera, mostra una dentatura marmorea indistinguibile da quella dei loro nipoti. E poi, ancora, padri culturisti che magnificano l’eredità in bicipiti lasciata ai figli (‘uguali, siamo uguali!). Dai manifesti che ci accompagnano al lavoro e colorano la via delle vacanze sono scomparsi gli acciacchi dell’età, gli uomini stanchi, i nonni finalmente a riposo.

Un vigore fisico innaturale sembra essersi impossessato di quella che era chiamata ‘terza età’.

La pubblicità che accompagna le nostre giornate, il linguaggio del capitalismo contemporaneo (più conservatore per alcuni aspetti del neo liberismo anni Ottanta), testimonia quanto il concetto di salute fisica si sia modificato e dilatato nel corso di poche generazioni cercando di depotenziare la vecchiaia, spostando sine die l’appuntamento col proprio corpo cadente e con la mente vieppiù in difficoltà.

Soltanto una generazione fa le medesime insegne spronavano a consumare in maniera indiscriminata beni che oggi sono pressoché banditi, visibili a malapena nelle pubblicità serali da fascia protetta, quella del ‘proibitissimo’ di Fantozzi per intenderci. A quel tempo c’era ostentazione di alcolici, superalcolici, sigarette di ogni marca e tipo, viatico necessario per una vita migliore, più completa. Il godimento attraversava i media in maniera trasversale e garantiva uno status, un posto nell’Altro sociale che ancora non si era scoperto cagionevole di salute e pertanto salutista. E che non negava la vecchiaia.

Solo nelle fasce serali, di solito nelle emittenti locali, gli anziani riprendono il loro posto da vecchi: vasche con apertura laterale, trabiccoli elettrici per deambulare e andare a fare la spesa, apparecchi acustici, case di riposo medicalizzate e, finalmente, prive di piscina o istruttori di fitness. Nelle sue basse frequenze la lingua del capitalismo riprende gli antichi codici per i vecchi consumatori, ma in modo quasi cifrato, seminascosto. Come nelle bettole nelle quali ancora si usa il dialetto.

Alain Delon ha demitizzato questa narrazione ricordando che né lo sport, né la medicina, e nemmeno la bellezza possono cancellare il momento del decadimento. In un tempo nel quale l’immagine digitale cristallizzata ed artefatta possiede migliaia di individui congelati in pose avvenenti e ritoccate su Instagram lui, salutandoci, ha ben spiegato quanto sia volatile, effimera e quanto pericoloso sia farne un abito totalizzante. Chapeau.

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