Una persona su tre che assume antidolorifici oppioidi dietro prescrizione medica mostra segni di dipendenza. È la conclusione di uno studio che ha coinvolto oltre 4,3 milioni di adulti affetti da dolore cronico. L’analisi è stata condotta dai ricercatori dell’Università di Bristol che hanno preso in esame 148 studi, a loro volta suddivisi in quattro categorie, a seconda di come gli studi definivano l’uso problematico di oppioidi. Da qui il rilievo di quasi un soggetto su tre (30%) che ha mostrato segni e sintomi di dipendenza e disturbo da uso di oppioidi, come desiderio compulsivo, ridotta risposta al farmaco o astinenza. E ancora, considerando altri dati (pubblicati sulla rivista Addiction), si sono verificati alcuni comportamenti anomali nel 22% dei casi. Si va dalla richiesta anticipata di altro farmaco a ripetuti aumenti delle dosi o frequente perdita delle prescrizioni.
Kyla Thomas, professoressa di medicina di salute pubblica presso l’Università di Bristol, che ha guidato lo studio, ha dichiarato che: “I medici e i decisori politici devono prendere con più seria considerazione l’uso problematico di oppioidi nei pazienti affetti da dolore, in modo da poter valutare la reale portata del problema; se necessario, modificare le linee guida sulla prescrizione di questi farmaci e incrementare interventi efficaci per gestire la questione”. Da segnalare che gli oppioidi, come codeina, morfina, ossicodone, tramadolo, possono fornire un sollievo dal dolore molto efficace se usati a breve termine. Tuttavia, se assunti per periodi prolungati, possono creare dipendenza, causare problemi di salute fisica e mentale molto gravi o problemi cardiaci dovuti agli effetti collaterali.
Il parere dell’esperto
“Mi sono occupato per tanti anni di eroina e oppiacei per cui non mi stupiscono i risultati di questa ricerca – spiega al FattoQuotidiano.it il professor Federico Tonioni, psichiatra e psicoterapeuta, Fondazione Policlinico Gemelli – Anzi, le dirò di più, in varia misura, tutti i farmaci che hanno una valenza affettiva – potrei dire quasi materna – possono provocare dipendenza”.
Per quale ragione?
“Per esempio, gli ansiolitici ti aiutano a superare le preoccupazioni e ti rassicurano a passare dalla veglia al sonno, come quando la madre rimbocca le coperte ai figli. Consideriamo che c’è un confine sottile tra dolore mentale e dolore corporeo, gli antidolorifici che sviluppano dipendenza spostano sul farmaco un dolore di altra natura, pre-esistente, di tipo affettivo”.
Gli antidolorifici di cui si parla nella ricerca fanno parte del gruppo degli oppiacei. In che modo si differenziano nella possibilità di provocare dipendenza?
“La qualità dell’antidolorifico sta nella sua emivita, ovvero nella durata della presenza del farmaco nel sangue. Per esempio, l’eroina ha un’emivita di 8 ore, il metadone che si somministra a una persona perché non usa più eroina, ha un’emivita che va dalle 24 alle 48 ore. Teniamo conto poi che gli oppiacei sono anche sedativi oltre a essere antidolorifici, e in qualche modo trasmettono anche una sorta di benessere interno. Per cui, più questo farmaco ha un’emivita lunga, più è complicata la fase di disintossicazione e più acuta è la crisi di astinenza”.
Dovremmo allora preoccuparci anche di farmaci della classe dei fans, come acido acetilsalicilico, ibuprofene, naprossene, ecc.?
“Attenzione, non bisogna creare inutili allarmismi. Dobbiamo però tenere a mente un elemento fondamentale. Tutto ciò che si prende cura di noi può dare dipendenza: una badante, una babysitter, una mamma, una donna o un uomo. E, appunto, un farmaco. Il punto chiave è che se da un lato è normale che un bambino sviluppi dipendenza dalla madre per poi emanciparsi, se il processo di sviluppo della sua personalità si è concluso positivamente, dall’altro, un bambino che è stato abbandonato o abbia vissuto gravi deficit affettivi non si fida più degli altri, non stabilisce un legame con le persone, sentimentale o amicale. A quel punto rischia di sviluppare da grande un attaccamento particolare non a una persona, ma a un oggetto concreto come un farmaco. In altre parole, la dipendenza si sviluppa in base all’investimento mentale che noi facciamo sul farmaco. È come il bambino che si affeziona a un peluche particolare che tiene vicino a sé prima di addormentarsi: quell’investimento fatto sull’orsetto è la stessa cosa che si può fare sul farmaco. Ci sono tante persone che hanno l’ansiolitico sul comodino, e magari non lo prendono. Ma se sanno che non ce l’hanno, non riescono ad addormentarsi. Questo vale per tante cose, per la sigaretta, lo shopping compulsivo, ecc.
Questa ricerca potremmo quindi considerarla la spia di un malessere più generale che può portarci a un tipo di dipendenza, non solo da farmaco. Allora come si può intervenire?
“Prima di tutto, occorre rispettare la persona, il paziente, aiutando a mantenere un equilibrio possibile, in certi casi anche con l’aiuto di un farmaco di cui possiamo aiutare a ridurre le dosi. In ogni caso, avendo una formazione psicoanalitica so bene quanto può essere complessa una disintossicazione e una riabilitazione da qualsiasi dipendenza patologica, chimica o comportamentale. Occorre sempre prendersi cura sempre di un’angoscia più profonda”.
Che cosa significa?
“Non basta disintossicare una persona, ma bisogna occuparsi della sua struttura mentale sottostante, ovvero dei motivi per cui quella persona fa uso di stupefacenti. Si tratta di un lavoro molto più complesso e prevede che il medico sia abituato alle ricadute del paziente e quindi sappia mettersi nei suoi panni. Io non ho mai conosciuto un tossicodipendente che desiderasse perdere l’equilibrio; tutti desideravano, attraverso l’uso disfunzionale di qualcosa che può essere una sostanza, un comportamento, mantenere l’unico equilibrio possibile. Ciò significa che in nessun modo la tossicodipendenza è un vizio, ma una malattia e che di piacevole nella vita di un tossicodipendente c’è veramente poco. E quindi, una volta aiutata a disintossicarsi, si accompagna la persona verso una psicoterapia individuale o, in alternativa, una terapia di gruppo”.