È il senso di colpa che fa ravvedere i protagonisti di atti incivili: questa la conclusione cui sono giunti gli autori del recente studio pubblicato dagli atenei di Florida e Texas. Diversamente dalle precedenti ricerche sull’inciviltà tra colleghi sul posto di lavoro, che hanno esaminato la situazione dal punto di vista delle vittime e degli osservatori, i ricercatori statunitensi hanno considerato la situazione dal punto di vista di chi compie atti scortesi, arrivando a ipotizzare che questi ultimi influissero sull’attore stesso. Infatti, al ritorno a casa, chi si era comportato male sul lavoro si sfogava con il coniuge, e il giorno dopo migliorava la performance lavorativa e si mostrava più gentile. Alla base del cambiamento, una riflessione sulle proprie azioni. “Chi si comporta scorrettamente fa del male anche a se stesso. Il senso di colpa è un fenomeno complesso”, spiega il coautore Daniel Kim, aggiungendo che questo sentimento fastidioso aiuta però a cercare di rimediare agli errori, soprattutto nel caso di impiegati motivati dal punto di vista pro-sociale (cioè con una propensione ad aiutare gli altri). Lodevole, dunque, il pentimento. Resta il fatto però che l’atto incivile si è verificato, con ovvi effetti sui colleghi ma pure sullo svolgimento del lavoro, e che il ravvedimento non è di lunga durata, secondo i modelli usati dai ricercatori: alla fine, il maleducato ci ricasca. Ma prima di tutto, di cosa stiamo parlando esattamente?

L’inciviltà e i suoi effetti

“Comportamento deviante a bassa intensità con l’intento ambiguo di fare danni”: così definisce l’inciviltà sul posto di lavoro Trevor Foulk, docente di managing e organizzazione all’Università del Maryland e autore di numerosi studi sull’argomento. Non abbiamo a che fare con forme di violenza fisica o psicologica, quanto piuttosto con una mancanza di rispetto nei confronti dei colleghi, che porta a rispondere bruscamente, criticare di continuo, farsi belli con il lavoro altrui, prendere in giro, ignorare le mail, non salutare e così via. Quindi nulla di particolarmente eclatante, ma senz’altro di logorante. La prima conseguenza è una riduzione dell’efficacia e della produttività lavorativa di chi subisce l’inciviltà, come osservato da molti studi, tra cui uno pubblicato nel 2023 sul Journal of Organizational Effectiveness: People and Performance. “I risultati sostennero le relazioni ipotizzate, dimostrando che l’esaurimento emozionale agisce come un mediatore tra l’inciviltà sul posto di lavoro e i risultati lavorativi degli impiegati”, scrivono gli autori. Con il tempo, ne deriva quindi un’alienazione lavorativa. L’altra conseguenza è che la maleducazione porta maleducazione, in un’escalation di sgarbi e di rapporti tesi. In pratica, è contagiosa e lascia il segno a lungo: secondo uno studio condotto da Foulk e colleghi, uno sgarbo è sufficiente per stimolare villanie per sette giorni. Un altro studio, questa volta svedese e pubblicato su Work and Stress, cercò di identificare possibili antecedenti di inciviltà indagando sugli aspetti organizzativi aziendali e sulla possibilità che le vittime di atti scortesi da parte di colleghi e superiori finissero con l’adottare gli stessi comportamenti. Risultarono decisivi alcuni fattori come i cambiamenti all’interno dell’azienda o l’insicurezza lavorativa, ma più ancora il legame tra inciviltà subita e istigata. “Questo potrebbe riflettere un clima o una cultura di inciviltà nell’organizzazione”, sottolineano gli autori. Di fatto uno studio del 2022 pubblicato su Behavioral Sciences concludeva che indubbiamente il problema mina i risultati lavorativi degli impiegati, ma quando c’è fiducia nei superiori le cose vanno meglio. Perché ci siano buoni rapporti tra gli impiegati, sono quindi importanti (serve dirlo?) anche il comportamento e l’affidabilità della classe dirigente. Ma se il capo si arrabbia un po’ non è detto che sia così negativo…

La rabbia controllata

La rabbia non è certo annoverata tra i sentimenti positivi, e assistere a scenate furiose è spesso traumatico. Un superiore sempre arrabbiato sul lavoro non fa il bene dell’azienda né dei colleghi (e nemmeno il proprio). Ma la rabbia non è tutta uguale. Per esempio lo psicologo James Averill dell’Università del Massachusetts, espertissimo dell’argomento, ne distingue tre tipi: il primo ostile e vendicativo, il secondo di sfogo e il terzo costruttivo, quando si voglia raggiungere un obiettivo o far valere i propri diritti. Di fatto, dal punto di vista psicologico essere troppo accomodanti non dà sempre risultati, e anzi chi vuole salire ai vertici aziendali deve manifestare un po’ di rabbia, interpretata come capacità decisionale e competitività. Vale anche per chi è in certe posizioni: il medico che viene contraddetto fa sentire tutta la propria autorità con una rabbia controllata (auspicabilmente), dimostrando di essere sicuro di sé. E l’allenatore che striglia gli atleti ottiene spesso buoni risultati. L’importante è che questa rabbia costruttiva non sia costante, non manchi mai di rispetto al prossimo e sia contenuta.

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