La sindrome cospirativa che ammorba ininterrottamente il dibattito pubblico italiano – specie nel vuoto di argomenti seri durante il periodo vacanziero – ha colpito di nuovo: la bagarre innestata dal presunto scoop di Alessandro Sallusti sulla congiura in elaborazione da parte di un team di complottisti incappucciati, di estrazione giornalistica-giudiziaria-renziana, nientemeno per colpire alle spalle Giorgia Meloni aggredendola per interposta persona: la fida sorella Arianna. A ipotetico rischio dell’incriminazione per un ex reato, quale il traffico di influenze, disinnescato dall’opera di un batrace in doppiopetto, quale l’attuale guardasigilli Nordio.

Visto che ad oggi non ci sono atti a seguire che confermino l’effettiva esistenza dell’incombente minaccia, potrebbe trattarsi di quanto nel gergo latino-americano viene chiamato “intentona”: un colpo di mano progettato ma poi accantonato sul nascere, vuoi per impedimenti, vuoi per intervenuti smascheramenti.

D’altro canto – stante la condizione della vita pubblica italiana, regredita al livello da repubbliche delle banane – mi permetto di avanzare un’interpretazione alternativa del fattaccio annunciato: trattasi di un messaggio in codice che “chi deve capire, capisca”. Insomma, invece di una messa in guardia, una trappola. O magari un depistaggio.

Tenendo sempre ben presente che il postino della notizia – l’accorato Sallusti, così profondamente turbato dal misfatto che avrebbe smascherato – porta da una vita la livrea di maggiordomo della famiglia Berlusconi. Un maestro del giornalismo mondiale, sulla cui autonomia di giudizio dovrebbe fare fede la ricorrente asserzione in tutti i talk show di un Silvio Berlusconi “colosso della politica mondiale”; proferita senza neppure dover trattenere una risata.

Ma la nostra premier – ormai evidentemente in preda alla sindrome paranoide da assedio – invece di liquidare con un’alzata di spalle la tempesta in un bicchier d’acqua provocata da un destabilizzatore professionale, stigmatizzato già dalla “diletta guida” Virgilio con i versi immortali “timeo Sallusti et dona ferentes”, ha preso la cosa terribilmente sul serio. Tanto da convocare nella masseria delle sue vacanze pugliesi l’infido alleato Matteo Salvini (e tenendo deliberatamente lontano l’altro malcerto partner, Antonio Tajani) per un colloquio la cui urgenza nasce da un’evidente percezione di qualcosa che si sta muovendo pericolosamente per gli equilibri di governo. E che non conviene parlarne alla presenza del leader di Forza Italia, l’altro famiglio berlusconiano.

Dunque la seconda generazione degli eredi del fu-Caimano – Marina e Pier Silvio – sono segnalati insofferenti dell’attuale corso politico meloniano. Quindi orientati a una prudente presa di distanze dalla premier, tanto nel broadcasting Mediaset come nelle scelte posizionali del partito di famiglia, affidato all’insapore e inodore gestione tajanesca. Per un cambio di maggioranza? Da qui la messa in atto di un’opera di logoramento, come farebbe supporre il richiamo in campo di un politico collaudato per qualsivoglia colpo di mano quale il ben noto Matteo Renzi.

Semmai c’è da capire il perché della crescente insofferenza nei confronti della puffetta mannara in certi ambienti della finanza da regime (dalle banche all’informazione). Quasi che l’indipendenza e l’attivismo sfrenato di questa politica in carriera abbia messo in apprensione chi è abituato a guidare nell’ombra e a proprio vantaggio il governo della Cosa pubblica. Nostalgico di referenti più malleabili alla Mario Draghi.

Indubbiamente beghe del generone romano affaristico, da cui l’opposizione farebbe meglio a tenersi lontana. Ma certamente irresistibili per un pezzo significativo dell’establishment sedicente di sinistra, cresciuto nel culto dell’inciucismo officiato da Massimo D’Alema.

Lascia stupiti che la tenera ospite in casa d’altri Elly Schlein, nonostante l’evidente friabilità della spina dorsale politica, possa minimamente dare corda a tali movimenti da basso impero. Come ne darebbero conferma altri “rumors”, di cui si sentono gli echi nella Liguria del dopo Totigate. Ossia l’interesse del Pd dei cacicchi all’imbarco nella compagine del Renzi (la cui fiduciaria Lella Paita aveva piazzato un suo assessore nella Giunta genovese a maggioranza totiana). Operazione suicida, che significherebbe perdere per strada il movimento Cinquestelle e un consistente pacchetto di voti per il niente renziano. Solo per accodandosi al chiodo solare suicida del cacicchismo che le elezioni si vincono imbarcando il peggio dell’opportunismo destrorso.

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