Se ne è andato Giorgio Poidomani, che ebbe l’intuizione di fondare il Fatto Quotidiano e che ne è stato amministratore delegato unico per il primo periodo. Aveva compiuto 90 anni lo scorso luglio. Prima di lavorare nel campo dell’editoria, è stato un grande manager di Stato. Una eccezionale carriera, una capacità straordinaria di previsione. In tanti si affidavano ai suoi consigli, che metteva a disposizione con generosità, prima di imbarcarsi in qualche avventura editoriale.
Circa quindici anni fa, una sera, si mise al computer e scrisse una decina di mail ad altrettante associazioni italiane. Tra queste c’era Antigone. La mattina dopo trovò due risposte nella casella di posta, una dalla nostra segreteria e una personale del nostro presidente. Erano i due indirizzi ai quali ci aveva scritto.
Scelse allora Antigone. Venne a incontrarci e si mise a disposizione per fare il volontario presso la nostra associazione. Era appena andato in pensione e, ci spiegò, non voleva rischiare di diventare un anziano che trova scuse con se stesso per allungare ogni giorno di più la permanenza nel letto alla mattina.
E fu così che fino a un paio di anni fa Giorgio per due volte alla settimana usciva di casa, raggiungeva la fermata della metropolitana, scendeva al capolinea di Rebibbia, camminava fino al carcere e teneva la riunione di redazione con i detenuti che collaborano alla nostra trasmissione radiofonica “Jailhouse Rock” realizzando in ogni puntata un giornale radio. Quella stanza era accesa da discussioni appassionate, da ricerche collettive, a volte da liti furibonde. Spesso lui ed io non eravamo d’accordo sui pezzi da registrare. Ovviamente Giorgio andava per la sua strada. Non so se mai qualcuno al mondo gli abbia fatto una volta cambiare idea.
Alle riunioni di redazione invitava spesso giornalisti dall’esterno, affinché portassero la loro testimonianza e raccontassero il mestiere di chi a propria volta racconta il mondo. Fedele e instancabile collaboratore di Giorgio in questi anni è stato il suo caro amico Stefano Bocconetti, giornalista in pensione, che con lui ha portato avanti questa esperienza straordinaria.
Nell’umanità del carcere Giorgio aveva trovato le relazioni più vere dell’ultima parte della sua vita. I salotti lo annoiavano. Credeva profondamente nella giustizia sociale. Ai miei figli si impegnava a spiegare i principi di un’impresa economica fondata sull’equità nella distribuzione e nei rapporti lavorativi. Anche per questo lo ringrazio.
Con i detenuti aveva rapporti autentici, privi di ogni finzione. Che non fosse uno di loro era evidente e non faceva nulla per nasconderlo. Lui, libero, benestante, colto, con un passato di grandi successi alle spalle; loro, chiusi in un carcere, spesso pieni di difficoltà economiche e sociali, a volte senza neanche la terza media. Ma era altrettanto evidente che la considerazione e il rispetto che aveva di sé e di chiunque altro erano gli stessi.
Giorgio aveva un grande rispetto per le persone con cui lavorava in carcere. Si percepiva in tutto, a partire dalla precisione con cui si preparava. Andava dritto per la sua strada, senza cedere a distorsioni e meccanismi carcerari, sempre con grande rispetto per tutti: ciò è quanto di meglio si possa fare per il carcere.
Per questo Giorgio era trasformativo. Non sempre accade. Troppo spesso il carcere, nei suoi meccanismi in bilico tra premio e punizione, genera quella ipocrisia che lui non sapeva dove fosse di casa e che lo ha fatto amare in quella cittadina dolente che è Rebibbia Nuovo Complesso.
In tanti che lo hanno conosciuto e amato in carcere hanno continuato a frequentarlo una volta fuori. Il campanello della sua casa al centro di Roma suonava di continuo. Le chiacchiere cominciate a Rebibbia continuavano davanti a un caffè. Erano le amicizie più care degli ultimi anni.
Per Antigone resterà sempre il socio onorario del quale andare fieri e da raccontare ai più giovani che arriveranno. E ci mancherà tantissimo.