L’Intelligenza artificiale costa e inquina. Più potenza di calcolo serve, più i computer devono essere potenti e più elettricità consumano. L’ Agenzia internazionale dell’energia stima che i consumi attribuibili ai data center siano destinati a raddoppiare, a livello globale, nei prossimi due anni. Cresce anche l’utilizzo di acqua, necessaria per generare energia e per rinfrescare gli impianti dove i computer sono collocati, negli ultimi due anni + 60%. Nei prossimi pure di più.
Già oggi colossi tecnologici come Google, Meta, Apple, Microsoft o Amazon sono tra i più grandi consumatori di energia (ed emettitori di Co2) al mondo. Alphabet (Google) e Microsoft utilizzano 24 TeraWatt/ora in un anno, poco di meno rispetto a paesi come Irlanda o Serbia, più dei 21 consumati dalla Giordania. Meta (Facebook, Instagram e Whatsapp) si ferma a 12 Twh, 5 in meno della Croazia. Negli ultimi 4 anni, i consumi di Google sono aumentati del 50%. Quelli di Microsoft del 30% in tre anni. Più complesso il discorso per Amazon che, a differenza degli altri, ha anche un’ imponente struttura logistica che implica magazzini, trasporti etc. Il gruppo di Jeff Bezos è però anche, insieme a Microsoft, il primo fornitore al mondo di spazi cloud e, a sua volta, è protagonista della corsa agli investimenti in intelligenza artificiale.
Il quotidiano britannico Financial Times ha dedicato un approfondimento al modo con cui questi gruppi stanno cercando di manipolare l’informazione e le regole per i conteggi delle emissioni, allo scopo di dissimulare il loro reale impatto climatico e ambientale. Una strategia messa in campo in vista dell’aumento esponenziale dei loro consumi energetici. La strategia resta imperniata sui controversi certificati Rec (renewable energy certificates). In sostanza “documenti” che attestano che una certa quantità di energia è stata prodotta da fonti rinnovabili. Questi certificati possono essere venduti e comprati sul mercato, indipendentemente da dove è situata la fonte energetica.
Ad esempio, una società americana può acquistare un certificato relativo a energia prodotta in Norvegia un mese prima. E così via. Secondo quanto dice al Financial Times, il docente dell’Università di Edimburgo Matthew Brander, è un po’ come all’acquisto del diritto di andare al lavoro in macchina a benzina da un collega ( o da un lavoratore occupato in un altro paese, ndr) che si reca in ufficio o in fabbrica in bicicletta. Negli Stati Uniti, dove questi gruppi tecnologici hanno sede e si concentra la gran parte dei loro consumi energetici, i combustibili fossili generano però il 60% del fabbisogno elettrico. Un dato non particolarmente virtuoso. Chi attinge elettricità dalla rete statunitense, insomma, inquina parecchio.
Da tempo Facebook, Google, etc fanno incetta di certificati Rec. In questo modo possono lanciarsi in proclami secondo cui l’energia che impiegano vine da fonti pulite e avrebbero raggiunto, o sarebbero prossimi a farlo, l’obiettivo delle zero emissioni nette. Cosa che in realtà, come abbiamo visto, è più che opinabile. Questi certificati sono parte della grande illusione secondo cui il problema dell’inquinamento può essere risolto facendo leva sui meccanismi di mercato. Che si possa conciliare il passaggio (necessariamente rapido) alle rinnovabile senza mettere in discussione i profitti di produttori e grandi utilizzatori. Una strada che sinora non ha portato da nessuna parte e le emissioni di Co2 continuano a salire.
Nel caso specifico dei certificati Rec, che al momento non sono neppure particolarmente costosi, diversi studi hanno evidenziato un beneficio pressoché nullo in termini di riduzione della quantità di anidride carbonica che finisce nell’atmosfera (Altra cosa, ma altrettanto fallimentare, sono i certificati per “compensare” le emissioni).
In considerazione di tutte queste pecche, il sistema dei certificati andrebbe velocemente accantonato. Ci si accinge invece a sottoporlo ad una revisione, ed è qui che i colossi stanno mettendo in campo ingenti risorse e capacità di lobbying. Amazon e Meta sostengono, ad esempio, che la flessibilità del requisito geografico dei certificati dovrebbe essere ancora maggiore, per consentire alle aziende maggiori spazi di manovra. I limiti sarebbero, al più, di natura temporale. L’energia rinnovabile può essere prodotta altrove ma in quello stesso giorno.
Google e Microsoft sembrano viceversa propensi ad una soluzione che dia più peso all’ubicazione della generazione dell’energia utilizzata. Quella rinnovabile da cui si “attingono” certificati Rec dovrebbe essere immessa nella stessa rete a cui è collegato chi consuma e compra. Tuttavia chi gestisce il sistema dei certificati giudica questa soluzione utopistica ed eccessivamente costosa.
Amazon ha anche finanziato studi da cui emerge, e non sorprende, l’opportunità di permettere alle aziende di comprare certificati di energia generata in altri paesi, qualora operi in “ambienti particolarmente competitivi”. La Fondazione di Jeff Bezos ha poi donato più di 9 milioni di dollari all’organizzazione che gestisce il sistema dei certificati. Rappresentanti di questi gruppi (e non solo) partecipano regolarmente alle riunioni in cui si deve decidere come riformare il protocollo dei certificati. Tutte queste società sono anche attivi investitori in impianti di energie rinnovabili ma con stanziamenti ben al di sotto di quelli per sviluppare i loro business, a cominciare dall’Intelligenza artificiale.
Sta di fatto che il principio rimane: pagando ci si lava la coscienza e si può far finta di essere paladini dell’ambiente. Se c’è una cosa che a questi gruppi non manca sono i soldi, di solito ammassati in paradisi fiscali e al sicuro dalle tasse. Non sia mai che gli stati possano usarli anche per rafforzare interventi a favore della transizione verde. Lasciare il processo in mano a soggetti privati che partecipano anche alla definizione delle regole a cui devono sottoporsi e ragionano, legittimamente, in termini di profitto, non sembra una grande idea, non fosse altro per il fatto che sinora si è dimostrata totalmente inadeguata.