L’impressionante aumento degli incendi registrato negli ultimi anni non è dovuto a fatalità o a cause accidentali ma dipende in buona parte dai cambiamenti climatici in atto. Questa conclusione è ora scientificamente supportata da uno studio, appena pubblicato, diretto dall’università di Murcia in Spagna con la collaborazione di altre università ed istituti internazionali (fra cui l’IGG-CNR di Pisa) su dati raccolti in un arco di venti anni sia al suolo sia da satellite.

Esso dimostra, infatti, con dovizia di particolari e grafici, che i fattori climatici influiscono per circa il 60% sulla estensione delle aree che bruciano e che tale correlazione è più forte nelle aree climatologicamente più umide mentre, nelle aree più aride è associata a periodi umidi e freschi antecedenti; concludendo, fra l’altro, che “i nostri risultati possono essere utilizzati per identificare le regioni con una forte relazione tra clima e incendio che potrebbe subire cambiamenti significativi nei prossimi decenni”. E pertanto possono rivelarsi preziosi per limitare preventivamente il proliferare di incendi che tanti danni stanno provocando all’ecosistema.

Basta ricordare, in proposito, che, secondo EFFIS (European Forest Fire Information System) a fine agosto 2023 oltre 67.000 ettari di territorio sono stati vittima di incendi in Italia e 412.000 in Europa. Insomma, se certamente è vero che spesso l’insorgere di un incendio è dovuto ad una attività umana è anche certo che la sua estensione e gravità dipende in buona parte dal clima, e non solo per la intensità del vento, ma soprattutto per la disponibilità di materiale combustibile su cui influisce sempre più l’impatto dei cambiamenti climatici. Tanto più che spesso la vegetazione copre ingenti quantità di rifiuti abbandonati, ottima esca per gli incendi.

A questo proposito, si deve anche considerare che, come evidenzia in una intervista (Foresight, settembre 2023) Valentina Bacciu, ricercatrice presso CNR-IBE e CMCC, dagli anni 50, l’area boschiva è quasi triplicata, a causa dell’abbandono delle aree rurali, dell’espansione della macchia mediterranea in aree marginali e di un aumento delle cosiddette aree di interfaccia selvaggio-urbana, cioè quelle zone dove c’è questa mescolanza di case e vegetazione. Si tratta di una tendenza chiaramente visibile in tutta l’area mediterranea e difficilmente modificabile, che contribuisce al rischio di incendi.

Pertanto, oltre alle condizioni meteorologiche e climatiche, dobbiamo anche considerare l’uso del suolo e la gestione del territorio in quanto anche l’uso del suolo è cambiato drasticamente. Pertanto – conclude l’intervista – “il cambiamento climatico ha un impatto enorme e aggrava una situazione che è già ad alto rischio. A causa di questo mix di fattori, si verificano incendi estesi e altamente virulenti, con un’incredibile intensità che sovrasta la capacità del sistema di sopravvivenza e rigenerazione”.

Pertanto, fermo restando che, utilizzando i dati di questo studio, molto si può fare per limitare i danni, appare del tutto evidente che il proliferare di incendi disastrosi oggi in atto può essere realmente combattuto solo intervenendo alla radice, e cioè sull’assetto del territorio e sui fattori che contribuiscono al cambiamento climatico quali le scelte economiche e le emissioni di gas serra che, purtroppo negli ultimi anni sono aumentate in modo vertiginoso in nome del profitto di pochi.

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