È innegabile che gli istituti penitenziari versino in condizioni preoccupanti. I ripetuti appelli del Presidente della Repubblica e del Papa, le sanzioni europee, le proteste in forme più o meno contenute, il numero crescente dei suicidi non solo tra i detenuti ma anche tra gli agenti di Polizia penitenziaria, non sono che sintomi di una situazione di profondo disagio.
Nessun giovamento ha potuto apportare l’afa estiva che ha afflitto la gran parte delle città italiane per un periodo quanto mai lungo. E puntuale come la calura anche quest’anno è tornato il dibattito sul sovraffollamento e la necessità di un provvedimento deflattivo del numero dei detenuti. In poco più di 200 istituti sono recluse quasi 62 mila persone.
Non si tratta di un numero eccessivo se paragonato ad altri contesti (negli Usa sono oltre 2,5 milioni su una popolazione di 300 milioni, quindi proporzionalmente molti di più), né se si pensa alla quantità di reati che noi cittadini onesti siamo costretti a subire. Siamo nella patria delle mafie e grandi organizzazioni criminali, dello scarso sviluppo del senso civico, dove la devianza e il mancato rispetto delle regole sono radicate nei secoli, a creare un ambiente corrotto in cui si è perfettamente integrata la micro-criminalità d’importazione.
I detenuti sono troppi rispetto al numero dei posti effettivamente disponibili. Lo stesso DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) fornisce i dati su un tasso di affollamento medio del 130% negli istituti di pena italiani. Situazioni particolarmente critiche in Lombardia e Puglia. A Rieti e Roma-Regina Coeli nel Lazio. Si tratta di condizioni evidentemente ed effettivamente degradanti che vanno a pregiudicare la funzione rieducativa della pena prevista dall’art. 27 c.3 della nostra Costituzione.
Un trattamento “contrario al senso di umanità” che alla fine si rivolge contro la collettività: non solo perché è strettamente correlato all’aumento della recidiva dei condannati una volta rimessi in libertà (più che assistere all’afflittività della pena, interesse prioritario della società dovrebbe essere quello di vivere in maniera ordinata e sicura, senza dover sopportare soprusi e reati), ma anche per le numerose condanne da parte della Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo con conseguenti provvedimenti tendenti a svuotare le carceri, inserire la cosiddetta “sorveglianza dinamica” e altri escamotage per non dover pagare sanzioni milionarie e risarcimenti ai sensi dell’art.35 ter dell’Ordinamento Penitenziario.
Dev’essere atroce, ancor più con il caldo estivo, stare in quattro (spesso in sei con aggiunta della terza fila di letti a castello) in una cella con bagno alla turca adiacente al fornello dove si cucina, docce esterne malfunzionanti, servizi igienici da terzo mondo. Ma il vero sovraffollamento è un altro, non relativo agli spazi vitali e ai metri “calpestabili” variamente disciplinati da norme e sentenze interpretative. Molto più incidente è lo scollamento tra il numero dei detenuti e la struttura amministrativa che complessivamente è tenuta a occuparsi di loro.
Tutti noi cittadini subiamo le difficoltà e angherie di una P.A. sempre più inefficiente in tutti i campi: scuola, sanità, trasporti, tutela del patrimonio urbano e paesaggistico, non c’è un servizio pubblico che non soffra dello smantellamento dello stato sociale messo in atto negli ultimi decenni da tutti i governi, senza distinzione, in nome del dogma delle liberalizzazioni e privatizzazioni. Nessuno si aspetterà che le cose possano andare diversamente nel settore della giustizia.
I penitenziari sono organismi tricefali con una Direzione, con annessi uffici amministrativi, un’Area educativa e un corpo di Polizia penitenziaria. Ebbene (come nel corso del mio lungo servizio nel carcere di Rebibbia ho potuto constatare direttamente) negli anni abbiamo assistito a un vorticoso calo non solo degli agenti di polizia, con invecchiamento e pensionamenti non rimpiazzati da un valido turn over, ma anche di dirigenti (in Casa di Reclusione, per fare un esempio, qualche anno fa da un Direttore e quattro vice che potevano dividersi le mansioni nei diversi settori si è passati per un periodo a una sola “reggente”, impegnata a scavalco in altri Istituti, e una vice-direttrice che svolgeva anche la funzione di responsabile dell’Area educativa; più recentemente per fortuna le cose sono migliorate ma si è arrivati a una Direttrice e due vice), di funzionari educatori, psicologici e tutto il personale annesso perennemente sotto-organico.
Le persone private della libertà dipendono per ogni aspetto della loro vita, anche per le esigenze più banali e quotidiane, da istanze cosiddette “domandine” inviate a uffici sempre più deserti, dove l’unico segno di vita sono telefoni che squillano ininterrottamente senza alcuna risposta. Fuori dal carcere ci sono altri uffici, assistenti sociali, UEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) che lamentano ugualmente carenze di personale. La Magistratura di Sorveglianza, che detiene l’ultima parola in tema di reinserimento in società, soccombe sotto un cumulo di 200 mila pratiche inevase. La Magistratura ordinaria, civile e penale, da cui comunque dipende quel 30% di detenuti in attesa di giudizio, notoriamente non vive giorni migliori.
Di fronte a questo sfacelo fa male sentire le dichiarazioni che provengono dai piani alti del governo. È stato approvato un decreto-carceri che di carceri non si occupa se non in minima misura. Ci si è fermati al tentativo di assestare qualche colpetto basso alla Magistratura per il solito regolamento di conti con la politica di scuola craxiana e quindi berlusconiana. Invece di pensare a innovare un Codice Penale “Rocco” ormai ultra novantenne, si continua a ingarbugliare norme procedurali che vanno ad acuire lo strabismo della giustizia: forte con i deboli (come magistralmente ha scritto Scarpinato qualche giorno fa su queste pagine), debole con i forti. Si è creata una giungla normativa in cui possono districarsi solo i potenti, i protetti e coloro che con proventi di varia natura possono permettersi di pagare gli avvocati giusti.
Pochi giorni dopo il suo decreto, il ministro della Giustizia ha riproposto in un’intervista i soliti rimedi. Chiunque abbia una minima contezza dei problemi che affliggono l’esecuzione della pena resta incredulo a sentir parlare ancora una volta di aumento di strutture e di posti (con il personale allo stremo e fondi insufficienti per aumentare decentemente le assunzioni in tempi brevi), rimpatri di stranieri (impresa mai riuscita neanche ai più duri dei governi leghisti), tossicodipendenti in strutture (che non esistono o sono profondamente inadeguate). E poi separazione delle carriere, obbligatorietà dell’azione penale, riforma del CSM, questioni che potrebbero essere interessanti ma sono rivolte a un futuro ancora ben lontano mentre il degrado è qui e ora e ai detenuti chiusi in cella non resta che sperare in un clima più mite con l’arrivo dell’autunno.