Quatta quatta la ministra del Lavoro e delle Politiche Sociali, Marina Calderone la butta lì. “Io credo che sul tema della previdenza complementare di cui si è parlato in questi giorni si debbano fare assolutamente, e si stanno facendo, delle riflessioni perché il secondo pilastro pensionistico è sicuramente importante come supporto alla previdenza di primo livello”. Per questo “credo che su questo tema ci siano da fare delle valutazioni ulteriori che sono certamente legate all’ipotesi di una riapertura di un semestre di silenzio-assenso“, ha detto mercoledì al meeting del movimento religioso Comunione e liberazione, in corso a Rimini. Il riferimento è alla destinazione del Tfr dei lavoratori.

“È una cosa che io sostengo e che credo sia necessaria, ha argomentato, anche perché forse oggi uno degli elementi che ha costituito una scarsa appetibilità della previdenza complementare soprattutto nei confronti delle giovani generazioni è il fatto che magari non è stata spiegata bene, non è ben compresa. C’è bisogno di fare sicuramente anche molta promozione in questo anche e di portare a bordo e quindi condividere il percorso anche con le organizzazioni sindacali e datoriali”, ha aggiunto.

Una proposta ancora più “radicale” era peraltro arrivata nei giorni scorsi dalla Lega. L’idea, cara al sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon sarebbe quella di rendere obbligatorio il conferimento ai fondi almeno una parte del Tfr, si parla di un 25%.

Un passo indietro. Con la decisione del 1996 di passare gradualmente dal più generoso sistema pensionistico retributivo a quello contributivo, più sostenibile per i conti pubblici, si sono anche poste le basi per consegnare le giovani generazioni ad un futuro di pensioni da fame. Con il contributivo, infatti, un lavoratore percepisce una pensione parametrata ai contributi effettivamente versati nel corso della sua vita lavorativa. Tuttavia in un paese come l’Italia, con stipendi mediamente molto bassi (e quindi anche contributi) ed elevata flessibilità del lavoro che si traduce in discontinuità di impiego e “buchi” di versamenti contributivi, il rischio molto concreto è di trovarsi a fine carriera con la prospettiva di assegni previdenziali di poche centinaia di euro.

Una delle soluzioni pensate per metterci una toppa è stata quella di incanalare il Tfr che si accumula nel corso della vita professionale, verso investimenti di vario genere, dai titoli di Stato alle azioni etc. Ciò attraverso fondi pensione aperti o di categoria, a volte gestiti dai sindacati, con vari livelli di rischio che possono essere scelti dal lavoratore. La scommessa è che borse e mercati possano offrire rendimenti superiori a quello della semplice rivalutazione parametrata all’inflazione che si applica al Tfr lasciato in azienda. Ma non sempre va così. Nel 2022, anno di alta inflazione e debolezza dei mercati, il Tfr rimasto in azienda ha, come si dice in gergo, ampiamente sovraperformato quello investito.

In linea di massima è vero che investire i soldi dovrebbe portare vantaggi in termini di rendimenti, soprattutto in un’ottica di lungo periodo come quella di un lavoratore ad inizio carriera. Inoltre, se si sceglie la destinazione ai fondi, il datore di lavoro è tenuto ad una compartecipazione nel versamento della quota. Al momento, su circa 20 milioni di occupati che si contano in Italia, poco meno della metà ha optato per i fondi pensione. Altri 10 milioni hanno lasciato il Tfr in azienda.

Conferire il Tfr in un fondo è una scelta definitiva che comporta maggiori vincoli al successivo utilizzo dei soldi. Già oggi, in realtà, vige un sistema iniziale di silenzio assenso. Come si legge sul sito Consip (l’ente che vigila sul settore) “entro 6 mesi dalla prima assunzione, il lavoratore del settore privato deve decidere cosa fare del proprio TFR. Può destinarlo in via definitiva a una forma pensionistica complementare (compilando il modello TFR2), aderendovi, oppure, lasciarlo presso l’azienda, non aderendo ad alcuna forma di previdenza complementare. La scelta di aderire alla previdenza complementare è irrevocabile, mentre quella di lasciare il TFR in azienda può in ogni momento essere modificata. In mancanza di una scelta esplicita da parte del lavoratore in merito al TFR opera il meccanismo del silenzio-assenso: il TFR confluisce automaticamente nel fondo pensione previsto dal contratto collettivo di lavoro o, in presenza di più fondi, in quello a cui è iscritto il maggior numero di dipendenti; in tal caso il lavoratore aderisce “tacitamente” al fondo pensione”.

Ma allora qual è l’idea della ministra Calderone? Pare di capire sia l’intenzione di far scattare un nuovo periodo di 6 mesi in cui i lavoratori (che già avevano scelto di lasciare la liquidazione in azienda) devono ribadire la loro decisione. Altrimenti, se non lo fanno, si distraggono o dimenticano di farlo, il loro denaro viene forzatamente “requisito” per essere investito in fondi pensione. La ministra (e la Lega), evidentemente, pensano di sapere cosa è meglio per i lavoratori più di loro stessi.

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