“Águila no caza moscas”, un proverbio molto conosciuto in Venezuela, che tradotto in italiano significa che un’aquila non caccia delle mosche, si concentra cioè su prede che siano alla sua altezza. Questa frase fu usata proprio dal presidente Hugo Chávez Frías nel gennaio 2012, per rispondere all’allora deputata Maria Corina Machado (classe 1967). Durante una seduta del parlamento infatti, Machado accusò Chávez di utilizzare la sua posizione come prima carica dello Stato per rubare “se ha dedicado a expropiar que es robar” (ha dedicato il suo tempo alle espropriazioni, che sono dei veri e propri furti).
Chávez, nella sua sorniona risposta, spiegava a Machado di essere per lei un avversario fuori portata e le consigliava in primo luogo di vincere le primarie dell’opposizione e poi affrontarlo sul terreno di una elezione: “questa è la democrazia”, spiegava il comandante della rivoluzione bolivariana, che morirà poi nel marzo dell’anno successivo.
Ed eccoci qui, dodici anni dopo quello scontro, con Maria Corina Machado che ha fatto tesoro di quella “lezione” e che, nonostante le manovre di ostracismo del regime di Maduro, ha guidato la campagna elettorale che ha visto il trionfo di Edmundo Gonzalez Urrutia il passato 28 di luglio.
Potrei scrivere un articolo analizzando nei minimi dettagli tutto quello che è successo nell’ultimo mese in Venezuela, oppure ricordando tutto quello che il sottoscritto denuncia da almeno 8 anni rispetto alle violazioni costanti e sistematiche dei diritti umani nel regime di Nicolas Maduro, però preferisco sollecitare una riflessione alla cosiddetta “sinistra”.
Partendo dal presupposto che utilizzare i concetti storici europei di sinistra e destra e sovrapporli a correnti progressiste o conservatrici in America Latina risulta un esercizio sterile, inappropriato e sintomatico di grande ignoranza, credo sia interessante osservare come, nonostante tutto, tardi ad arrivare il mea culpa di chi, da questa parte dell’Atlantico non ha visto (o non ha voluto vedere), l’elefante nella stanza.
Vittima dei paraocchi della Guerra Fredda o di un feroce antimperialismo Yankee, una certa sinistra ha difeso (difende?) alcuni dei peggiori caudillos latinoamericani, tra cui spicca proprio il venezuelano Nicolas Maduro. Allora mi chiedo, cos’altro deve succedere in questo paese sudamericano perché si capisca che il popolo è stufo della rivoluzione bolivariana? Quante altre volte dobbiamo “interpretare” le parole di un dittatore che ha sequestrato un paese e che nei suoi meeting parla di “bagno di sangue”, di “mantenere il potere con le buone o con le cattive”?
Sì perché quando Maduro, forte di una impunità che sfiora quasi quella di Benjamín Netanyahu, lancia minacce dall’alto della sua presidenza, ci viene spiegato dalla dotta sinistra nostrana che non voleva dire quello che ha detto, che le sue parole sono state travisate. Poi però le carceri del Sebin (Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional) si riempiono di oppositori e manifestanti, lavoratori di ong, giornalisti e difensori dei diritti umani: tutti torturati, violentati, minacciati e detenuti arbitrariamente. Casi denunciati da ong come Amnesty International, Human Rights Watch e soprattutto denunciati dall’Onu in diversi dei suoi comitati e agenzie.
Di fronte a queste denunce, sempre la sinistra nostrana ci spiega che dobbiamo vedere le “complessità”, le stesse complessità che però non risultano essere giustificazioni ad altri periodi cruenti della storia latinoamericana, come per esempio gli anni della presidenza di Alvaro Uribe in Colombia e tutti i morti che quel periodo ha portato con sé. In quel caso specifico la dotta sinistra ci spiega che non ci sono complessità da analizzare, che Uribe è un assassino e che sotto la sua presidenza si sono compiuti massacri ed aberrazioni (ed io concordo).
Le “complessità” però emergono, quando a compiere queste azioni sono presidenti che si arrogano (a diritto o meno) un posto dentro l’eterogeneo e frammentato mondo della sinistra latinoamericana. Un mondo dove, per inciso, nel caso del Cile di Boric, non si è tardato a denunciare le violazioni delle regole democratiche da parte di Maduro (purtroppo Petro e Lula stanno tergiversando). A quel punto dicevano, il popolo che conta è solo quello che segue il diktat della rivoluzione permanente, dell’antimperialismo statunitense, dell’asse Russia, Iran e Cina.
Una rivoluzione che la sinistra nostrana porta avanti dall’Italia, senza vivere sulla propria pelle la scarsità di medicinali, di cibo, senza vivere la repressione costante, le minacce contro i familiari, la mancanza di accesso a mezzi di comunicazione, l’inflazione galoppante, etc…
Una rivoluzione fatta e vissuta per procura, scudandosi con il titolo di un famoso libro uscito in Spagna nel 2018, scritto da Ignacio Sánchez-Cuenca Rodríguez (professore universitario che oggi fa parte di Sumar): la superioridad moral de la izquierda (la superiorità morale della sinistra). Una supposta superiorità morale che giustifica tutto, dalle violazioni eclatanti dello Stato di diritto, alla demolizione della democrazia, fino ad arrivare a torture e uccisioni. Tutto sacrificato sull’altare della lotta per un bene superiore e per il popolo, solo però per quel popolo che vota correttamente (gli altri sono sacrificabili, anche se sono la maggioranza).
Attenzione però, chi scrive non è d’altro canto all’oscuro dell’ingerenza statunitense negli affari venezuelani, così come non è all’oscuro (anche per esperienza personale) degli interessi ad personam di molti membri dell’opposizione (un corpo politico astratto e multiforme che agglutina sigle e storie politiche molto diverse tra loro).Chi oggi rappresenta una via di riscatto per il Venezuela non sarebbe certo il mio presidente se potessi scegliere, ma oggi, per chi non lo avesse ancora capito, si tratta di evitare che altri 3 o 4 milioni di venezuelani lascino il loro paese (8 milioni sono già emigrati) e che una banda di corrotti, malfattori e delinquenti continui a mantenere sequestrato e asservito un intero paese.
Per chiudere e per parlare delle complessità che tanto piacciono a taluni, non possiamo certo giudicare un processo storico come i 25 anni di chavismo solo alla luce dell’operato di Maduro, una rivoluzione che ha vissuto più tappe, con diversi protagonisti, perseguendo obiettivi che però in nessun modo possono giustificare quello che oggi sta succedendo.