La schiavitù, processo nel quale la persona è espropriata della sua umana dignità, non è affatto terminata. Difficile dimenticare la tratta atlantica di milioni di schiavi preceduta e accompagnata dal quella dei mari orientali attraverso le piste carovaniere del deserto.

In questo ambito Paesi ‘cristiani’ e ‘musulmani’ hanno utilizzato entrambi la schiavitù come sistema economico e sociale, mare Mediterraneo compreso. La tratta degli schiavi ha saputo adattarsi e prosperare nelle mutevoli contingenze storiche senza nulla perdere della sua cinica strategia di annientamento. In Africa Occidentale la pratica della schiavitù si riproduce in vari Paesi a seconda dei gruppi etnici, dei rapporti di potere culturale, economico e politico. Per ogni epoca le sue ‘compatibili’ schiavitù.

Nella notte del 22 al 23 agosto del 1791 iniziò l’insurrezione nell’isola di Santo Domingo, oggi Repubblica di Haiti, che avrebbe giocato un ruolo determinante nell’abolizione della tratta atlantica degli schiavi. Ed è in questo contesto che la giornata internazionale della memoria della tratta degli schiavi e della sua abolizione è commemorata ogni anno il 23 agosto. Detta celebrazione vuole inscrivere questa tragedia nella memoria collettiva dei popoli col progetto interculturale ‘Le Strade delle persone ridotte in schiavitù’. Alcuni luoghi della costa atlantica, come la ‘Porta del non- ritorno’di Ouidah nel Bénin e quella dell’isola di Gorea in Senegal, sono emblematici. Le porte di ‘non-ritorno’ si sono oggi moltiplicate perché la mercificazione delle persone si è, col tempo, perfezionata.

Tutto, proprio tutto, è stato gradualmente trasformato in mercanzia. Il tempo, le frontiere, il corpo umano, la sessualità, il lavoro e la vita stessa fin dal suo scaturire nel grembo materno. Dalle nostre parti si assiste all’arruolamento di bambini nei gruppi armati, lo sfruttamento degli stessi nelle miniere e nelle piantagioni per sfociare infine nella mendicità, la prostituzione e il lavoro domiciliare.

D’altra parte à bene non dimenticare che, nel Sahel, la prima e grande schiavitù è la miseria. La sua figlia naturale sono le carestie che si riproducono con paziente regolarità e coinvolgono, secondo le ultime statistiche della ‘Alliance Sahel’, almeno 38 milioni di persone. Quanto accade in Libia coi migranti che sono da tempo detenuti, imprigionati, sfruttati e, spesso, violentati, è storia ben nota.

Quanto alla schiavitù mentale, fonte e culmine di tutte le servitù elencate, essa inizia il giorno nel quale si accetta, spesso con inconscia gratitudine, la propria schiavitù. Senza sudditi sinceri, fedeli e consenzienti nessuna schiavitù e nessun tiranno potrebbe esercitare il suo potere di dominazione.

Ricordava infatti Etienne de la Boétie: “Sono dunque i popoli stessi a lasciarsi o per dire meglio a farsi maltrattare, sarebbero salvi solo se smettessero di servire. È il popolo che si fa servo e si taglia la gola; che, potendo scegliere fra essere soggetto o essere libero, rifiuta la libertà e sceglie il giogo, che accetta il suo male, anzi lo cerca”.

Nel Sahel i colpi di Stato a ripetizione e l’avvilimento delle esperienze democratiche post indipendenza sono lo specchio dei nostri popoli. Scrive ancora de la Boétie: “Non è forse evidente che i tiranni per imporsi hanno sempre cercato di abituare i popoli non solo ad ubbidire e servire ma anche a venerarli?”. Nessun cambiamento, trasformazione o autentica rivoluzione potrà cadere dall’alto di un’illuminata minoranza civile o militare. Le uniche ‘liberazioni’ possibili non possono che scaturire, nutrirsi e crescere a partire dalla debolezza e la fragilità dei poveri che, soli, hanno il segreto della quotidiana lotta per la r-esistenza.

Il primo passo sarà quello consigliato dall’autore citato: “Decidete una volta per tutte di non servire più, e sarete liberi! Vi chiedo […] soltanto di smettere di sostenerlo e lo vedrete, come un colosso di cui si sia spezzata la base, crollare sotto il proprio peso e spezzarsi”. E’ questa la vera porta di non-ritorno.

Niamey, 23 agosto 2024

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