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La strada di Kamala Harris sembra spianata, ma l’euforia è un rischio: Trump può ancora vincere

Kamala Harris ha accettato la nomination democratica alla Casa Bianca per Usa 2024, ha tracciato la “nuova via” che la sua America intende percorrere, e, da pm qual è, ha portato avanti il suo caso contro il suo rivale Donald Trump. Ci sono stati applausi, commozione, ovazioni, palloncini: tutto da copione d’una convention come si deve, in un clima di speranza, ma anche di coinvolgimento. Con un monito: di qui all’Election Day il 5 novembre, ci sono dieci settimane e nulla è deciso.

Nel discorso d’accettazione della nomination, a chiusura della convention democratica di Chicago, Harris ha tratteggiato la sua agenda politica e s’è proposta come una leader in grado di contrastare un rivale che è una minaccia per la democrazia, per la stabilità globale e per i diritti delle donne. C’è un’opportunità per liberarsene e bisogna coglierla, dice, cercando l’unità e non la divisione: lei, per cominciare, s’impegna a rispettare l’esito del voto e a fare un passaggio delle consegne pacifico.

Sulla Fox, Trump replica: “Le cose che ora dice di volere fare, Kamala poteva farle negli ultimi tre anni e mezzo”. E’ il ‘tallone d’Achille’ della campagna di Harris, soprattutto sul fronte dell’immigrazione, dove la candidata democratica ammette che il sistema è “fallimentare” e s’impegna a correggerlo.

In un mese quasi esatto, s’è così compiuta la rapida parabola che ha portato il partito democratico dal ritiro dalla corsa del presidente Joe Biden, il 21 luglio, all’emergere della sua vice e alla scelta d’un nuovo ticket: Kamala Harris, 60 anni, californiana, padre afro-americano e madre indiana, e Tim Walz, pure 60 anni, del MidWest, bianco, docente e coach di football americano.

L’ultima notte della convention democratica è stata tutta al femminile, con i discorsi, fra gli altri, della governatrice del Michigan Gretchen Whitmer e della senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren. Ma tutta la convention è stata al femminile: gli interventi che hanno più lasciato il segno sono stati quelli di Hillary Clinton, colei che prima di Harris è andata più vicina a rompere il soffitto di cristallo della presidenza statunitense, e di Michelle Obama, entrambe più efficaci dei loro mariti ex presidenti, Bill e Barack (anche se loro sono stati più spiritosi). Bill, 78 anni compiuti e i segni dell’età evidenti, ha notato di essere, nonostante tutto, più giovane di Trump, sia pure di due mesi.

Del resto, Harris, americana, donna e afro-indiana, ha accettato la sua nomination nel giorno esatto in cui, 60 anni or sono, un’altra donna nera, Fannie Lou Hamer, scosse la convention democratica del 1964, chiedendo se “è questa l’America?” di fronte ai delegati tutti bianchi del suo Mississippi. La coincidenza rende l’importanza del percorso fatto ancora più evidente.

Un mese fa, il partito democratico era diviso, incerto, impaurito, esposto agli attacchi di Trump. Oggi, appare unito, fiducioso, rinvigorito, mentre la campagna di Trump cerca una parata al cambio di ticket e d’atteggiamento: aria truce contro sorriso, ghigno contro risata sono scelte perdenti.

In questo momento, molto può fare indulgere i democratici all’ottimismo: Harris ha una copertura mediatica positiva, Trump generalmente negativa – era vero pure nel 2016, quando Trump vinse -; è avanti nei sondaggi nazionali – anche Hillary lo era nel 2016, quando Trump vinse –; ed ha dalla sua un tema come i diritti riproduttivi – un’arma di cui Hillary non disponeva -. La campagna di Trump è impantanata in una strategia dell’insulto, che ne mette in evidenza gli aspetti sessisti e razzisti e che, a conti fatti, è controproducente.

Ma, di qui al voto del 5 novembre, incognite e trappole sono numerose: il dibattito del 10 settembre, in diretta televisiva, su Abc, sarà un momento della verità, ma non il solo (comunque, più di quello fra i due vice Tim Walz e JD Vance l’1 ottobre); l’andamento dell’economia, che dà segni di fatica, e l’inflazione che scende più lentamente di quanto gli elettori vorrebbero; gli sviluppi delle guerre in Ucraina e, soprattutto, in Medio Oriente, che è stata una miccia non spenta alla convention.

Ro Khanna, deputato progressista della California, trova “un tragico errore” avere negato la parola ai palestinesi, dopo il discorso di Jon Polin e Rachel Goldberg, ebrei-americani, genitori di Hersh, 23 anni, rapito da Hamas il 7 ottobre e tuttora detenuto, che nessuno ha minimamente contestato. Tra i potenziali relatori alla convention c’era Ruwa Romman, deputata dello stato della Georgia e palestinese.

L’uscita di scena, prevista per oggi, del terzo incomodo, Robert F. Kennedy jr, pronto a barattare l’endorsement a Trump con la promessa – lui, ‘no vax’ – del ministero della Sanità, non dovrebbe alterare di molto i rapporti di forza fra i due candidati dei maggiori partiti. Ma altre sorprese non possono essere escluse, in una corsa che ha visto continui scossoni: politici, con lo ‘squagliarsi’ degli antagonisti di Trump alle primarie; e giudiziari, con i rinvii a giudizio e le condanne di Trump, ma anche con gli interventi a suo favore della Corte Suprema, che hanno reso impossibile celebrare o anche solo avviare i processi più significativi.

E’ probabile che i sondaggi del fine settimana, che possono risentire del clima e della copertura della convention, alimentino l’ottimismo dei democratici, confermando l’ascesa di Harris e lo stallo di Trump. Ma il rischio dell’euforia è dietro l’angolo e i moniti alla convention sono stati incessanti: i sondaggi restano statisticamente in equilibrio, con distacchi nei margini di errore: e Trump può ancora vincere; non bisogna dare per scontato il risultato né abbassare la guardia.

“Sarà una battaglia fino all’ultimo”, avverte Barack Obama. “Dobbiamo continuare a darci da fare”, incalza Michelle. “Abbiamo visto più di una elezione scivolarci dalle dita perché ci siamo distratti o abbiamo avuto troppa fiducia”, ricorda Bill Clinton, scottato nel 2000 e nel 2016. Walz parla come un allenatore di football: “E’ l’ultimo quarto, siamo sotto di una meta, ma siamo all’attacco e abbiamo la palla: dobbiamo segnare”.

Sul mio sito trovate il conto alla rovescia verso Usa 2024