Paola Samoggia è musicista e compositrice bolognese, ma di respiro internazionale. Formazione classica in Conservatorio, studi di informatica, ama l’improvvisazione, i ritmi jazz, la sperimentazione. Creatrice di colonne sonore, dà alla sua musica una valenza artistica e sociale importante. Nelle sue composizioni ha affrontato temi drammatici quali la povertà e le morti per incidenti sul lavoro. Le piace “raccontare storie” con i suoni, lavorare con altri artisti e soprattutto con le immagini. Adora la danza e le coreografie. Presta un’attenzione maniacale alle sincronizzazioni quando lavora con i video, ama poco le performance live, che non sempre consentono questa precisione.
Paola Samoggia, che compositrice è lei? come si definisce?
Sono una compositrice “libera”: utilizzo la tecnologia, combino suono e rumore, e generi musicali diversi.
Che formazione ha avuto?
Diploma di pianoforte a Bologna sotto la guida di Walter Proni; perfezionamento a Vienna con Walter Panhofer e Irena Barbag-Drexler e col polacco Tadeusz Kerner per l’interpretazione di Chopin.
E per la composizione?
Fabio Vacchi, Azio Corghi e Mauro Bonifacio. Ho studiato anche Musica elettronica e Improvvisazione jazz per trovare il mio stile personale.
Altre esperienze formative?
I rumori delle fabbriche (ride), che frequentavo negli anni Ottanta e Novanta. La fabbrica di mio padre dove giocavo da bambina. Esperienze che hanno formato la mia percezione uditiva, e stimolato l’interesse per i ritmi del mondo del lavoro e delle macchine.
I suoi sono progetti di visione e musica, insieme. Che ruolo ha la musica?
Dipende. Se mi occupo di un documentario, assecondo le scelte del regista e cerco di supportare le immagini; se lavoro con videoartisti mi spingo oltre, e immagino un mondo sonoro più largo. Ciò richiede tempo: non funziona con progetti da terminare in uno-due giorni.
Lavora molto spesso con suo marito, Carlo Magrì, architetto e clarinettista. Come funziona questa collaborazione?
Di solito propongo una prima idea narrativa e un soggetto. Ne studiamo i possibili sviluppi e io creo la musica. L’immaginario visivo compete a Carlo, che cura regìa, fotografia, montaggio e postproduzione. Concluso il lavoro, si apre la fase di confronto e di eventuali aggiustamenti.
E per i progetti di videodanza?
Lasciamo liberi i coreografi. Sappiamo che la riuscita dei nostri lavori dipende dalle singole competenze.
Nel 2007 avete fondato la Società Imagem per il vostro lavoro di produzioni mulltimediali e design.
Imagem affianca alla modellazione tridimensionale e rendering fotorealistico nel settore dell’architettura, l’attività artistica, e realizza produzioni su temi sociali: una nuova forma di comunicazione dei propri principi etici e dell’immagine aziendale.
La sua produzione artistica è spesso centrata su un messaggio etico, su problematiche sociali. Perché?
L’arte giunge al cuore, quindi può servire a divulgare temi sociali: ti soggioga, non puoi scappare! Io spero di emozionare il pubblico, ma anche di farlo riflettere su temi che migliorino il mondo. Troppo idealista? (ride).
Un suo progetto porta il titolo Arte è lavoro.
Il titolo esatto: Arte e/è Lavoro, una questione di accenti. È nato all’inizio del Covid, quando agli artisti è stato detto che “non servivano” perché il loro non è un lavoro. Così abbiamo deciso di parlare del lavoro attraverso l’arte e di sottolineare che l’arte è un lavoro.
Di cosa si occupa il progetto?
Di dignità e sicurezza sul lavoro, temi legati ai goals 1, 8 e 10 dell’Agenda 2030 dell’Onu. In questi giorni stiamo girando un cortometraggio: aggiungiamo anche il concetto di salute, come indicato dall’Oms. A nostro avviso rientra nel tema della dignità.
Ci illustra la sua opera 27 dollari?
27 dollari è un’opera da camera multimediale liberamente tratta dal primo libro, Il banchiere dei poveri, del Premio Nobel per la pace Muhammad Yunus: vi è narrato il progetto economico e umanitario del microcredito. Una storia che vede la forza e il coraggio delle donne come possibile via d’uscita dalla povertà.
E sul piano musicale com’è?
Ha caratteri della nostra tradizione, con un ampio grado di elaborazione personale; emergono archetipi, la Ninna-Nanna, il Valzer, la Marcia, che, rivisitati in chiave contemporanea, danno slancio ed emotività al racconto.
Cosa l’ha colpita del messaggio di Muhammad Yunus?
Il coraggio, la voglia di lottare, la determinazione per dare una via d’uscita a chi vive in povertà assoluta. Il sogno di “segregare la povertà nei musei entro il 2050” mi è sembrato bellissimo!
Lei lo conosce di persona?
Sì, certo, e ne ho seguito le attività. Ne apprezzo la coerenza, la generosità, la grande capacità di vedere oltre. La storia del Bangladesh di queste ultime settimane ha riconfermato il suo immenso valore. Ha lottato tutta la vita contro la povertà e da ultimo anche per l’ambiente. Ora potrà finalmente testare il suo modello economico nel suo Paese. Potrebbe diventare un esempio virtuoso per tutti noi.
Il libretto della sua opera è di Rita Forlani: come lo giudica?
È un libretto ideale: poche parole, dirette ed essenziali. Un messaggio senza retorica. La storia è ambientata nel Museo della Povertà, nel 2080. Il sogno di Yunus – segregare la povertà nei musei – si realizza. Il Museo resta solo come monito per le popolazioni future.
C’è anche il balletto No Crash che riguarda le morti sul lavoro.
L’idea è nata nel dicembre 2007 dopo il terribile incidente alla ThyssenKrupp di Torino. Di nuovo la cronaca, un tema sociale difficile, il silenzio della musica contemporanea… Ho deciso di colmare questo “vuoto”. Hanno collaborato Rita Forlani per la sceneggiatura e Serena Zardini per le coreografie. Con mio marito Carlo ho discusso le scenografie, analizzando vari lavori di Bill Viola.
Perché questo progetto?
Soprattutto per sollecitare il mondo del lavoro a non deflettere dai diritti fondamentali durante l’emergenza sanitaria scatenata dal Covid. Da allora, marzo 2020, abbiamo trasformato il balletto in cinque brevissimi cortometraggi: oltre 200 proiezioni in Italia e all’estero.
Nello scambio tra arte visiva ed espressione sonora Lei ha inventato il genere del Fotogramma musicale. Cos’è?
Lo abbiamo ideato nel 2003 con Leonardo Conti, critico d’arte e proprietario della Galleria PoliArt Contemporary di Milano. puntiamo sulla corrispondenza tra le suggestioni visive dei quadri e un costrutto sonoro. In questo nuovo ambiente suoni e immagini si incontrano e si potenziano.
Come realizza il materiale musicale?
Con strumenti tradizionali, sintetizzatori, rumori appartenenti ad altri emisferi sonori, o di pura invenzione.
Il suo rapporto con PoliArt?
Dal 2003 nelle inaugurazioni della PoliArt (perlopiù delle personali) figura un mio fotogramma dedicato ai quadri della mostra. È un’opportunità di sperimentazione per me e di formazione culturale di un pubblico che, pur abituato all’arte attuale, non sempre ha dimestichezza con la musica contemporanea. I fotogrammi sono stati anche raccolti in vari cd, distribuiti da PoliArt in fiere del settore.
Di recente la Società Italiana di Musica Contemporanea per festeggiare il centenario le ha commissionato un pezzo per chitarra.
La commissione è giunta inaspettata, ma molto gradita. È stata un’occasione per riflettere su sonorità e tecniche di scrittura che uso raramente. È nato Donne, un brano in cinque piccoli momenti, uno per ogni verso della poesia che funge da filo conduttore, Rosmarino di Antonella Kubler. Stimo moltissimo la forza e delicatezza, profondità e leggerezza che Kubler sa esprimere. Abbiamo proiettato il suo testo durante l’esecuzione.
E poi c’è un progetto sviluppato con l’Università di Bologna.
S’intitola “Diffondere la cultura della sicurezza sul lavoro attraverso l’arte”; lo coordinano Emanuela Carbonara e Maria Rita Tagliaventi del dipartimento di Sociologia e Diritto dell’economia. È nato nell’estate 2023 da un piccolo progetto pilota, realizzato l’inverno scorso con una classe di un istituto professionale: contiamo di coinvolgere il prossimo anno quattro dipartimenti e più classi della secondaria superiore.
Con suo marito l’avete definito “arte edificante”…
Sì, “edificante” nel senso di “costruire qualcosa”, come in architettura; e anche “che induce al bene”. Una costruzione paziente, in cui ognuno mette esperienza, sapere e capacità tecnica per additare i grandi temi sociali. Siamo grandi idealisti, no?