La voce di Glenn Stromberg è quella di un uomo triste. L’ex giocatore di Goteborg, Benfica e Atalanta è provato: la notizia della scomparsa di Sven Goran Eriksson, benché attesa, è un dolore profondo. “Dopo la famiglia, Eriksson è stato la persona più importante della mia vita. Mi ha dato tanto e non solo nel calcio: se oggi sono l’uomo che sono, lo devo anche a lui. Eravamo preparati alla notizia, ma in verità non si è mai pronti di fronte alla morte di una persona alla quale sei molto legato”.

I ricordi di Stomberg, 64 anni, una vita divisa tra Italia, Svezia, Spagna e Inghilterra, voce importante della tv del suo paese, partono da lontano. 1979, Glenn aveva 19 anni ed Eriksson guidava il Goteborg: “Io ero arrivato nel 1977, ma giocavo nella primavera. Nel 1978 crebbi all’improvviso di venti centimetri ed ebbi qualche problema alla schiena. Fu un periodo difficile. Nel marzo 1979, Eriksson mi convocò in occasione di un torneo indoor. C’erano grandi nomi, avevo appena 19 anni. Piano piano entrai in prima squadra e divenni titolare. Con quel Goteborg, vincemmo campionato e Coppa Uefa. Eriksson, approdato in Portogallo nel 1982, un giorno mi chiamò al telefono per propormi il trasferimento al Benfica. Avevo avuto qualche contatto con club tedeschi e olandesi, ma scelsi l’offerta di Sven perché la sua presenza mi rassicurava. Il Portogallo rappresentava la mia prima esperienza all’estero. Eriksson mi aiutò a inserirmi e a prendere confidenza con il calcio portoghese collocandomi nella seconda squadra, poi quando cambiarono le regole riguardanti la presenza degli stranieri, mi lanciò nel Benfica dei grandi. Comunicò il mio esordio alla vigilia di una partita e non mi tolse più, tranne rari casi legati agli infortuni. Vincemmo due campionati e ci trasferimmo insieme in Italia: lui alla Roma, io all’Atalanta. La lontananza professionale non ha mai indebolito il nostro rapporto. Ci siamo incontrati più volte in questi ultimi mesi di vita. E’ stato emozionante”.

Il tour dell’addio è stato un lungo congedo itinerante: “Si è goduto l’affetto della gente prima di andarsene perché voleva essere salutato da vivo. Il finale era già scritto, ma Sven è riuscito a scrivere un ultimo capitolo formidabile. In Svezia era amato e in queste ore il tributo nei suoi confronti è molto sentito. Vedo che anche in Italia c’è l’omaggio di tante tifoserie: ha compiuto l’impresa straordinaria di ricevere l’affetto di laziali e romanisti. Nessun giocatore ha mai parlato male di lui, neppure quelli che aveva mandato in panchina. Con i calciatori si è sempre comportato in modo leale. Il saluto con quelli del Goteborg è stato molto intenso perché ha voluto incontrare tutti, anche quelli che giocavano poco. Si ricordava di tutti e ha avuto un pensiero anche per il club dei suoi inizi, il Degerfors. Per lui era una squadra uguale alle altre, senza distinzione di categoria. L’altra cosa che mi ha colpito di lui è che poche volte sono riuscito a incontrare una persona che ha mantenuto il suo modo di essere dopo quarant’anni di successi e di notorietà. Il successo dà alla testa e il mondo del calcio ti fa perdere spesso il contatto con la realtà. Sven invece era lo stesso uomo dei tempi di Goterborg. Questi ultimi mesi sono stati il degno finale di una vita intensa. Ci vuole coraggio per affrontare la morte in questo modo”.

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