“La frontiera è già aperta”, afferma Gabriele Del Grande, dando voce a una verità spesso celata nel discorso pubblico sull’immigrazione. È uno dei punti focali del monologo multimediale che il giornalista, dopo aver scritto Il secolo mobile – storia dell’immigrazione illegale in Europa, sta portando in giro per l’Italia. “Non bastano le morti e i pericoli a disincentivare le partenze: la gente passa, e solo uno su dieci arriva via mare”, chiarisce Del Grande, tra i giornalisti che con maggiore attenzione studia e racconta le migrazioni da quasi vent’anni. Cent’anni fa non esistevano né visti né passaporti. Oggi, sui fondali del Mediterraneo, giacciono i corpi di 50.000 persone annegate “lungo le rotte del contrabbando”. Quello di Gabriele Del Grande è uno sguardo sulla “storia delle migrazioni in Europa vista dal futuro”, che traguarda il superamento delle frontiere partendo da un preciso ripasso degli ultimi 100 anni di storia di immigrazione “irregolare”.

In modo simile a quanto fatto con L’ordine delle cose, film con il quale Andrea Segre mostrava il dietro le quinte degli accordi con i tagliagole per l’esternalizzazione della frontiera europea in Libia, il monologo multimediale prodotto da ZaLab non si limita a fare “divulgazione”, ma cerca anche di mettere insieme chi condivide la necessità di cambiare sguardo e pratiche sulle migrazioni. Del Grande critica anche la narrativa dell’emergenza che domina il dibattito sull’immigrazione. “Noi abbiamo questo racconto dell’assedio, dell’invasione, che arrivano tutti qui. Ma uno su quattro a livello globale sceglie l’Europa, e in futuro saranno sempre di meno”, osserva, evidenziando che ogni anno dall’Europa se ne vanno 1 milione e 400mila immigrati non europei. Una proposta, quella della liberalizzazione dei visti, tanto interessante quanto distante dai dibattiti legati all’emergenza del momento o alla (pur fondata) retorica utilitaristica del “accogliamoli perché sono utili all’economia e ci pagano le pensioni”. La questione non è umanitaristica e non si limita a riconoscere doverose protezioni umanitarie a chi ne ha diritto, ma mette al centro in maniera radicale la libertà di movimento.

Chi dice ‘chiudiamo le frontiere’ mente sapendo di farlo, visto che le frontiere dell’Europa, nei fatti, è come fossero vecchie reti bucate”, argomenta Del Grande. “Non bastano le morti e i pericoli a disincentivare le partenze: la gente passa e solo uno su dieci arriva via mare, dai barconi dove sono puntati tutti i riflettori dei media e della propaganda”. Visto che le persone si muovono comunque, è la tesi dell’autore, tanto vale liberalizzare i visti. Ma concretamente, quante persone in più arriverebbero? “Esistono delle stime: in dieci anni arriverebbe circa il doppio delle persone che arriverebbero comunque, ma molti si sposterebbero, allo stesso modo di come fanno i nostri connazionali che cercano fortuna all’estero. Se le persone non fossero bloccate dal sistema dei visti, ci sarebbe una circolazione molto più libera che, peraltro, porterebbe a risparmiare enormi quantità di risorse oggi buttate nella militarizzazione delle frontiere e responsabilizzerebbe sul fronte dei cambiamenti climatici, dei conflitti e delle disuguaglianze, i veri elementi che determinano la quantità di persone costrette a spostarsi per vivere”.

Un’altra critica al movimento “abolizionista” — come i ricercatori Giliberti e Palmas hanno recentemente definito nel loro Boza! Diari dalla frontiera (Elèuthera) i movimenti per il superamento delle frontiere — è quella del possibile effetto dell’arrivo di manodopera disposta a essere sottopagata: “Servirebbero leggi e un sindacato, certo, ma va sottolineato come questa obiezione venga fatta solo per i migranti provenienti dal Medio Oriente o dal continente africano, quando la maggioranza degli immigrati in Italia e nei paesi economicamente più forti dell’Europa arriva da Polonia, Albania, Ucraina… perché loro vanno bene e gli altri no? Scontiamo ancora i retaggi del razzismo scientifico”. Un’operazione basata su anni di studio e confronti accademici, che, nel dibattito odierno sull’immigrazione, rischia di passare per provocazione. Eppure questa “modesta proposta”, che a differenza di quella di Jonathan Swift non vuole avere un intento satirico, ha fatto il giro d’Italia riempiendo le sale e raccogliendo consensi: “Una sfida e uno spunto radicale per una politica che volesse essere alternativa al racconto politico e mediatico che schiaccia l’immigrazione sui temi dell’emergenza e della sicurezza”.

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