A che ci servono gli orsi? Perché non abbatterli tutti e farla finita? È intorno a questa domanda – espressa esplicitamente solo nel finale – che si snoda Pericolosamente vicini, il documentario firmato da Andreas Pichler (in programmazione il 26, 27 e 28 di agosto al cinema) sul rapporto, in Trentino, tra i grandi carnivori e l’uomo. Un’area fortemente antropizzata, che ospita circa cento orsi e che dalla morte di Andrea Papi, avvenuta il 5 di aprile del 2023 sul Monte Peller, non smette di far parlare di sé.

E la pellicola – distribuita da Wanted in collaborazione col Club alpino italiano – parte proprio dalla scomparsa del runner, con la ricerca, di notte, in Val di Sole. E con una voce fuori campo che anticipa una delle posizioni, rappresentate così bene, insieme alle altre, sulla gestione dei plantigradi: “La natura è pericolosa. E non siamo noi i suoi padroni”. A far da contraltare le parole – sempre composte in un senso di ammirevole dignità – e le lacrime dei genitori di Papi: “Chi è responsabile, in questi 25 anni, non pensi di farla franca”.

Sì, “in questi 25 anni”. Attraverso le testimonianze della squadra incaricata di monitorare gli orsi – composta da veterinari e forestali – Pichler ci parla di cosa significa oggi avere a che fare con un centinaio di loro; e cosa è significato reintrodurli ieri, cioè a cavallo tra gli anni Novanta e gli inizi del Duemila, quando gli orsi sulle Alpi italiane erano sostanzialmente estinti e il progetto Life Ursus si è occupato di ripopolare le montagne trentine. Qui le immagini di repertorio – straordinarie di per sé – mostrano il momento della liberazione nei boschi di una decina di orsi prelevati dalla Slovenia. Se c’è una pecca – l’unica – nel documentario è non aver approfondito a sufficienza le ragioni che hanno portato le istituzioni a reintrodurre l’orso in Italia. Lo facciamo noi: erano ragioni di carattere prevalentemente economico (avere l’orso significa “vendere” il territorio all’estero come selvaggio, incontaminato, e dunque da visitare) e, in parte, scientifico. Tanto che la popolazione, allora, era di fatto d’accordo con l’operazione.

Non lo è più ora. Almeno, una buona fetta di popolazione trentina non lo è. E a loro dà voce Pichler. All’allevatore: “Siamo tutti contrari, la reintroduzione andava fermata”. Alle persone che partecipano all’assemblea pubblica dopo la morte di Papi, ucciso da Jj4: “Chi ha sbagliato faccia mea culpa, riportiamo le cose com’erano un tempo”. Già, ma com’erano le cose un tempo? Senza grandi carnivori, senza l’uomo? Rispondono, tra gli altri, i genitori di Papi: “Liberiamoci di orsi e lupi e torniamo cittadini liberi come eravamo prima”. La stessa linea adottata da subito dal presidente della provincia autonoma, il leghista Maurizio Fugatti, al secondo mandato, la cui voce viene presa da un comizio elettorale – immaginiamo che Pichler gli abbiamo chiesto, senza successo, un’intervista: “In montagna ci abitiamo noi”. E sempre dal palco qualcuno aggiunge (sulla falsariga di ciò che una volta si diceva dei migranti): “Se qualcuno è affezionato a orsi e lupi se li porti a casa sua”.

Le posizioni sono così polarizzate da essere inconciliabili. E lo scontro è automatico. Come quando gli animalisti sfilarono nel 2014 in difesa dell’orsa Daniza, che aggredì un fungaiolo. O come sta accadendo nell’ultimo anno e mezzo (il 21 di settembre è previsto un nuovo corteo a Trento, dopo le vicende che hanno riguardato Kj1, abbattuta quest’estate dopo l’aggressione a un turista francese). In mezzo, i forestali, chiamati a far rispettare la legge e a far conciliare entrambe le posizioni, senza mai schierarsi. Professionisti preparati e appassionati, che si commuovono nel film – per esempio – quando l’orsa F43 muore accidentalmente durante le operazioni necessarie per apporle il radiocollare. E che spiegano come sia possibile convivere coi plantigradi ma che non hanno dubbi su che cosa sarebbe giusto fare quando si ha di fronte un orso problematico: “Sospendere l’abbattimento di Jj4 è stato sbagliato“.

Ciò che emerge sorprendendo, lungo l’ora e mezza di documentario, è la natura dell’orso, così composita, così unica. Chi ha imparato a conoscerlo, chi lo ha seguito – veterinari, etologi, forestali – non ha dubbi: è un essere straordinario, il vero re delle montagne se ce n’è uno. “L’emblema di tempi antichi” dicono. E la sua presenza è “un valore aggiunto che ci insegna che non siamo noi i padroni del bosco. E se è vero che è pericoloso, è altrettanto vero che è uno dei meno aggressivi del nostro territorio”. E qui il messaggio di Pericolosamente vicini: se siamo arrivati al punto in cui siamo arrivati, così divisi, così arrabbiati, con una tragedia alle spalle, una popolazione impaurita e orsi abbattuti per il semplice fatto di essersi comportati da orsi, è responsabilità (colpa, anche) delle istituzioni. Che non hanno portato avanti una doverosa e sana educazione nelle scuole, che non hanno fatto ricorso a strumenti comunicativi e a strumenti di convivenza pacifica (cassoni anti-orso, dissuasori). Che, in sostanza, per ragioni di carattere elettorale, hanno fatto fallire l’ambizioso progetto Life Ursus. Tanto che i genitori di Papi, a un certo punto, dichiarano: “Se ci avessero detto come stavano le cose, Andrea non sarebbe mai salito lassù”. L’attività informativa, culturale, è stata snobbata per 20 anni, in pratica.

A cosa ci servono, dunque, gli orsi? Due possibili risposte vengono affidate alla fine del documentario a un veterinario, che li ha studiati a lungo e che ha a che fare con loro, e a un ex forestale, che ha vissuto in prima persona il progetto Life Ursus. Sono risposte complesse, come il documentario. Come ciò a cui dovremmo ricorrere quando affrontiamo argomenti tanto delicati.

Mail: a.marzocchi@ilfattoquotidiano.it

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