Sparizioni forzate, torture e violenze contro studenti, operai, contadini, intellettuali e giornalisti, rifugiati. Un meccanismo di repressione sistematica e indiscriminata, voluto e organizzato dallo Stato messicano per annientare qualunque forma di dissidenza, non solo quella legata ai gruppi armati. É la nuova immagine della “guerra sucia”, la guerra sporca, che emerge dal rapporto Fue el Estado (È stato lo Stato) realizzato dal Mecanismo de Esclarecimiento Histórico (MEH), organismo della Comisión de la Verdad creata dal presidente Andrés Manuel López Obrador per fare luce sui fatti accaduti in Messico dal 1965 al 1990, quando il Paese era governato da un sistema autoritario e monopartitico. Secondo gli autori dell’indagine, che in oltre 5mila pagine hanno presentato nuovi documenti e oltre mille testimonianze, in uno dei periodi più drammatici della storia del Paese lo Stato ha utilizzato tattiche repressive contro ogni tipo di dissidenza rendendosi responsabile di gravi violazioni dei diritti umani. Non casi isolati ma un progetto totalitario di contro-insurrezione, attuato insieme all’esercito e ad altre agenzie governative, per sedare qualunque gruppo sociale considerato come una minaccia per gli interessi statali.
Ad agosto Fue el Estado è stato presentato nel distretto di Tlatelolco a Città del Messico, dove il 2 ottobre 1968 più di 300 persone furono assassinate dalle forze di sicurezza e dai militari che avevano ricevuto l’ordine di disperdere la massiccia protesta studentesca che si stava svolgendo per chiedere riforme nell’università e nella società. Il massacro è riconosciuto come uno dei più violenti della “guerra sporca”, espressione che indica gli eventi politici avvenuti in quei decenni e la violenta repressione attuata dagli apparati statali e militari contro i movimenti di opposizione, soprattutto quelli di ispirazione comunista, e contro la guerrilla urbana e rurale.
Nel contesto della Guerra Fredda e dei blocchi contrapposti, il Messico era attraversato da movimenti di protesta organizzati da contadini, studenti e intellettuali che volevano riforme sociali, economiche e libere elezioni. Il governo, retto dal Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) al potere in modo ininterrotto dal 1929, rispondeva alle richieste di democrazia e cambiamento con arresti, torture, uccisioni e sparizioni dietro il pretesto di mantenere la stabilità e sicurezza interna e fermare la diffusione delle idee comuniste.
L’esercito, insieme all’agenzia di intelligence Dirección Federal de Seguridad (DFS), ha condotto operazioni militari contro gruppi guerriglieri, la parte armata delle proteste, che chiedevano riforme agrarie e politiche. Tra questi, i gruppi guidati da figure come Genaro Vázquez (a capo dell’Associazione Cívica Nacional Guerrerense, ACNR) e Lucio Cabañas (fondatore del Partido de los Pobres, PDLP), attivi nella regione di Guerrero, sono stati colpiti da massicce operazioni militari (il massacro di Atoyac de Álvarez avvenuto nel 1967, il massacro di Copala nel 1974, il massacro di El Charco nel 1998) che hanno colpito anche i civili e le comunità accusate di sostenerli. In tutte queste operazioni, i militari hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani tra cui esecuzioni extragiudiziali e torture. Il complesso sistema di repressione prevedeva gruppi paramilitari, come la nota “Brigata Bianca”, che hanno agito con totale impunità dietro l’approvazione delle più alte sfere del potere politico. L’esercito ha represso manifestazioni della società civile e degli studenti che chiedevano elezioni libere e trasparenti, una riforma agraria che garantisse una equa distribuzione delle terre e migliorasse le condizioni dei contadini e l’accesso all’istruzione.
“Ogni governatore, corpo di polizia, comandante interpretava che cosa o chi era comunista, chi rappresentava una minaccia, come bisognava reprimere la dissidenza, disciplinare la popolazione e garantire la permanenza del regime politico”, affermano gli autori del rapporto. Attraverso le testimonianze dei familiari delle vittime e dei sopravvissuti, l’indagine restituisce un’identità alle persone scomparse e ricostruisce gli omicidi, le torture, le sparizioni forzate, gli stupri, le detenzioni arbitrarie e le occupazioni militari. L’importanza della nuova ricerca è aver studiato la repressione contro persone, movimenti e realtà finora rimaste lontane dall’attenzione mediatica: comunità contadine, indigene e afro-messicane, chi si opponeva alle nuove politiche di sviluppo, operai, omosessuali, transessuali, profughi, artisti. E lo studio mostra come le violenze non sono avvenute solo a Città del Messico o nelle regioni più note, come Guerrero o Sinaloa e Chihuahua, ma in almeno 17 Stati del Paese.
Sono più di 8.500 le vittime e decine di migliaia le persone scomparse. Il rapporto ricostruisce 46 nuovi massacri di cui si avevano poche informazioni. Tra questi, il “massacro di Monte Chila”, nello Stato di Puebla, avvenuto nel gennaio 1970 quando la polizia uccise almeno 324 persone indigene – tra cui donne, bambini e anziani – che chiedevano terre da coltivare. Nuovi elementi riguardano i voli della morte, una pratica militare che consisteva nello sbarazzarsi dei corpi delle vittime gettandoli in mare dagli aerei. Nel 1980 i militari usarono questa tattica per rovesciare la popolazione della zona di Huitiupan in Chiapas, dove il governo progettava di costruire una centrale idroelettrica. L’esercito impose un assedio militare contro circa 14.000 persone: i leader degli ejidos, cioè forme comunitarie di gestione della terra, che appartenevano alle popolazioni indigene Tsotsil, sono stati sequestrati e uccisi nei voli della morte. Un ulteriore dato, che dà la portata della grandezza della repressione, riguarda lo sfollamento interno forzato di decine di migliaia di persone in tutto il Paese. I ricercatori hanno registrato almeno 113 eventi che hanno causato la fuga dalle proprie case di almeno 123.034 persone, vittime delle politiche pubbliche del governo.
La catena delle responsabilità è ampia. Cinque ex presidenti sono ritenuti i presunti responsabili “per azione o omissione”: Gustavo Díaz Ordaz (1964-1970), Luis Echeverría (1970-1976), José López Portillo (1976-1982), Miguel de la Madrid (1982-1988) e Carlos Salinas di Gortari (1988-1994). Sono chiamati in causa anche cinque segretari della Difesa, un ex segretario della Marina, sei procuratori generali della Repubblica. Le responsabilità arrivano fino ai gradi più bassi della magistratura e dell’esercito: poliziotti e militari, che hanno partecipato direttamente a numerose gravi violazioni dei diritti umani, sono stati istruiti dallo Stato sulle tattiche di contro-insurrezione e in molti casi poi “hanno trovato posto nel sistema della criminalità organizzata”, si legge nel rapporto.
La strada per ottenere questo risultato non è stata semplice da percorrere. I ricercatori hanno denunciato che, nel corso delle loro indagini, sono stati ostacolati dalle istituzioni di sicurezza e intelligence, proprio tra i principali responsabili degli abusi ricostruiti nel rapporto. Gli autori hanno denunciato che in più di un’occasione sono stati costretti ad aspettare ore prima di accedere agli archivi e che spesso i documenti richiesti avevano parti mancanti o erano considerati non reperibili. Una delle denunce di Fue el Estado è l’idea che l’apparato repressivo, invece che essere scomparso, si è trasformato ed è ancora presente. Secondo gli autori, i meccanismi di corruzione e impunità in Messico non sono stati ancora sradicati e questo toglie la garanzia che quanto accaduto nella “guerra sporca” smetta di ripetersi.